Passeremo
alla storia.
Tra qualche anno si leggerà nei libri di questo 2020, bisestile in
tutti i sensi, secondo il detto "anno bisesto, anno funesto".
Il pensiero della guerra non mi ha mai sfiorata, nel senso che non ho mai creduto che mi sarei trovata a vivere all'interno di un conflitto, tantomeno uno di dimensioni mondiali. Le uniche guerre con cui ho avuto a che fare sono state quelle studiate nei libri di storia e poi spiegate ai miei alunni in tutti questi anni di insegnamento, guerre che hanno coinvolto popoli dell'antichità, dell'età di mezzo, il Medioevo, guerre dell'età moderna, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e conflitti contemporanei, quelli che ancora oggi si combattono localmente e di cui si parla nei servizi del tg. Ma sono state e sono tutte guerre "lontane" da me e dal mio mondo. Invece adesso ci troviamo tutti coinvolti in una nuova guerra che sta assumendo carattere mondiale: la guerra del virus COVID-19, più noto come corona virus. Esagero nel definirla una guerra? Forse. Ma forse no. Stiamo vivendo una situazione che mai e poi mai avremmo creduto di dover vivere e c'è chi combatte. I combattenti appartengono a tre categorie: i malati, specialmente quelli gravi che lottano per sopravvivere all'attacco di un virus aggressivissimo; le forze dell'ordine, che cercano di mettere in atto misure contenitive; ma soprattutto gli eroi di questa dura battaglia, i medici, gli infermieri e gli operatori socio sanitari ai quali dobbiamo tutta la nostra gratitudine.
Non mi dilungherò a parlare del virus, in quanto da circa un mese non si parla d'altro in televisione, sui giornali, alla radio. Abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto in questo periodo.
Sappiamo che si è sviluppato in Cina, mesi fa. I mezzi di informazione di massa ne parlavano come di qualcosa lontano da noi, troppo lontano per temere un eventuale contagio.
Ho ancora presenti le parole di una mia alunna di prima media: <<Prof, io ho paura. Non arriverà mica qui?>>. Allo stesso modo, ho presente il mio sorriso rassicuratore e il tono materno con cui le ho risposto: <<Ma no, tranquilla, non c'è da avere nessuna paura. Siamo da tutt'altra parte del mondo>>.
Ed eccoci qui, ostaggi del virus, e, tra gli Italiani, proprio noi lombardi siamo i più colpiti, tanto che da tre giorni la nostra regione è stata dichiarata zona rossa e sono state messe in atto misure restrittive che stanno condizionando, cambiando, costringendo, limitando, stravolgendo le nostre abitudini di vita. Dalla mezzanotte tra sabato 07 e domenica 08 marzo divieto di uscire dalla Lombardia, di spostarsi da una provincia all'altra senza giustificato motivo (e che sia un motivo valido e importante: lavoro, salute, prima necessità), controlli da parte delle forze dell'ordine, multe salate per chi trasgredisce. Scuole chiuse da circa tre settimane, università, biblioteche, centri di aggregazione culturale, cinema, teatri. Vietate le riunioni, gli assembramenti; chiusi gli impianti sportivi. E ora vietato anche uscire di casa. Persino il Presidente della Repubblica ha fatto il suo appello in televisione. Trasmissioni senza pubblico, cerimonie religiose sospese, chiese chiuse, sospesi i matrimoni e persino i funerali. Al supermercato si entra dieci alla volta, con la security che controlla la coda dei clienti all'esterno, suddividendo le file: fila di destra e fila di sinistra. Obbligo di non avvicinarsi, di mantenere le distanze (prima si diceva un metro, ora due), niente strette di mano, niente abbracci, niente baci. Nei social qualcuno scrive: appena tutto questo sarà finito, vorrò abbracciare tutti, persino i pali della luce. Crisi di affetti, distanza tra le persone, annullamento di ogni possibile contatto fisico. Gente che si incontra per strada, amici di vecchia data che bisogna tenere lontani e, allora, si fa anche finta di non vederli, perché fino al giorno prima erano baci e abbracci, quando li incrociavi, e ora non si può più.
Il primo sgomento è stato vedere gli scaffali dei supermercati svuotati, come se fossimo di fronte a una carestia, come se si dovesse fare scorta di alimentari per paura di rimanere senza e morire di fame, una paura atavica. Dopo un'iniziale frenesia, alla terza settimana di questa emergenza, di questo stato di assedio, le emozioni sono molteplici: preoccupazione, ansia, paura, panico, depressione. Tutte negative. Qualcuno accusa i governanti di essere intervenuti tardi, di avere chiuso la stalla quando i buoi erano ormai scappati. Non è servito chiudere gli aeroporti italiani, quando i cinesi giungevano in altri Stati europei e poi raggiungevano il nostro paese in aereo, in autobus e in treno. Non è passato subito il messaggio della gravità del problema, da molti è stato preso sottogamba e lo è tutt'ora, tanto che la gente, fino all'altro giorno, andava al mare, si spostava da una regione all'altra, si ammassava fuori dai bar, dai pub, dalle gelaterie. Non è stato percepito da tutti il pericolo. E' di ieri sera la notizia che tutta l'Italia è dichiarata zona rossa.
Il virus si sta diffondendo a macchia d'olio in tutto il Mondo, sta contagiando persone in ogni stato europeo, ha raggiunto gli Usa, il Brasile e presto toccherà tutti gli Stati. Le Borse crollano, l'economia crolla. Gente che perde il lavoro, che viene messa a "riposo", costretta a prendere ferie o congedi, stipendi che non entrano più nelle famiglie dei lavoratori a partita IVA. Il Mondo è in ginocchio, sconfitto da una malattia che si è rivelata contagiosissima, pur essendo solo un'influenza, ma, a differenza delle altre, con un tasso di mortalità superiore alla media. Colpisce anziani e giovani indistintamente, ma è mortale più per le persone oltre una certa età e con patologie pregresse. Eppure... eppure le strutture ospedaliere sono al collasso, le sale di terapia intensiva e le sale di rianimazione sono colme, così come i reparti di infettivi. Non ci sono strumenti sufficienti per combattere questo virus, non esistono farmaci, non servono antibiotici. I pazienti più gravi vengono intubati, ma sono di questi giorni le notizie che non ci sono abbastanza macchine per intubare, quindi si predilige salvare i giovani piuttosto che le persone con oltre sessant'anni, poiché i primi hanno un'aspettativa di vita maggiore. Si fa appello al senso di responsabilità, ma molti sembrano non capire, continuano a sottovalutare, ci ridono sopra. Circolano vignette, video, battute. Un modo carnevalesco di sdrammatizzare, di esorcizzare la paura della morte che, non neghiamolo, sta sfiorando ognuno di noi. Chi non pensa "E se mi colpisce, se prende proprio me?".
Come viviamo questo momento particolare della nostra epoca così super tecnologica e all'avanguardia? Siamo fiduciosi o ci addormentiamo con un pensiero inquietante? C'è chi non ci pensa? Sicuramente sì, qualcuno ci sarà, qualche fatalista che dirà "Tanto di qualcosa dobbiamo pur morire", ma credo che la maggior parte di noi abbia paura.
Passeremo alla storia, si conteranno i contagiati, i morti, i sopravvissuti. Il bilancio sarà senz'altro positivo, non così per i familiari di chi non ce l'avrà fatta. Ma nessuno di noi dimenticherà mai questo 2020. Di questo sono sicura.
La storia, lo sappiamo, è fatta di corsi e ricorsi, come diceva Vico: a un periodo di eccessivo benessere, che porta inevitabilmente alla perdita dei valori, a non riconoscere più le cose che veramente contano nella vita, tutti presi nel vortice della conquista di maggiori traguardi economico finanziari, segue sempre un periodo di distruzione, determinato ora da una guerra ora da una catastrofe. Epidemie, guerre, carestie hanno costellato la storia dell'umanità sin dai tempi antichi, ripercorrendo corsi ciclici. Oggi forse stiamo vivendo uno di quei momenti.
La globalizzazione, figlia della supremazia dei mercati occidentali a economia capitalistica sui mercati locali dei paesi più poveri, ha portato all'integrazione tra i popoli, nonché alla promiscuità, facilitando la diffusione del virus.
E ora il nuovo flagello ci porta a guardarci dentro, a porre in primo piano le cose che contano davvero, perché la morte non guarda in faccia nessuno, falcia tutti nello stesso modo e ci rende tutti egualmente vulnerabili.
Dopo la guerra, dopo la distruzione, si sa, lentamente si risorge, con nuove energie, nuova voglia di fare, una visione diversa, più fresca e genuina nei confronti del mondo e della vita stessa, pieni di ottimismo e di buoni sentimenti. E questo fa pensare che certe catastrofi siano qualcosa di "necessario", di insito nel meccanismo dell'universo per riequilibrare le sue parti. Ma la storia, proprio con i suoi corsi e ricorsi cui accennavo prima, ha dimostrato che l'uomo non impara, non ricorda, dimentica in fretta e ricade nei medesimi errori.
La cosa che mi colpisce di più in tutta questa vicenda è la limitazione della libertà personale che ci troviamo a vivere per la prima volta nella nostra epoca.
IO STO A CASA è lo slogan di questi giorni. Le Istituzioni raccomandano di limitare le uscite allo stretto necessario, all'acquisto di beni di prima necessità (cibo, per dirla in parole semplici), visite mediche, lavoro. Le uscite devono essere giustificate, accompagnate da un modulo apposito, da esibire nel caso in cui si venga fermati dalla polizia. Se si trasgrediscono le disposizioni, scatta la denuncia, si rischia il carcere.
Il pensiero della guerra non mi ha mai sfiorata, nel senso che non ho mai creduto che mi sarei trovata a vivere all'interno di un conflitto, tantomeno uno di dimensioni mondiali. Le uniche guerre con cui ho avuto a che fare sono state quelle studiate nei libri di storia e poi spiegate ai miei alunni in tutti questi anni di insegnamento, guerre che hanno coinvolto popoli dell'antichità, dell'età di mezzo, il Medioevo, guerre dell'età moderna, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e conflitti contemporanei, quelli che ancora oggi si combattono localmente e di cui si parla nei servizi del tg. Ma sono state e sono tutte guerre "lontane" da me e dal mio mondo. Invece adesso ci troviamo tutti coinvolti in una nuova guerra che sta assumendo carattere mondiale: la guerra del virus COVID-19, più noto come corona virus. Esagero nel definirla una guerra? Forse. Ma forse no. Stiamo vivendo una situazione che mai e poi mai avremmo creduto di dover vivere e c'è chi combatte. I combattenti appartengono a tre categorie: i malati, specialmente quelli gravi che lottano per sopravvivere all'attacco di un virus aggressivissimo; le forze dell'ordine, che cercano di mettere in atto misure contenitive; ma soprattutto gli eroi di questa dura battaglia, i medici, gli infermieri e gli operatori socio sanitari ai quali dobbiamo tutta la nostra gratitudine.
Non mi dilungherò a parlare del virus, in quanto da circa un mese non si parla d'altro in televisione, sui giornali, alla radio. Abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto in questo periodo.
Sappiamo che si è sviluppato in Cina, mesi fa. I mezzi di informazione di massa ne parlavano come di qualcosa lontano da noi, troppo lontano per temere un eventuale contagio.
Ho ancora presenti le parole di una mia alunna di prima media: <<Prof, io ho paura. Non arriverà mica qui?>>. Allo stesso modo, ho presente il mio sorriso rassicuratore e il tono materno con cui le ho risposto: <<Ma no, tranquilla, non c'è da avere nessuna paura. Siamo da tutt'altra parte del mondo>>.
Ed eccoci qui, ostaggi del virus, e, tra gli Italiani, proprio noi lombardi siamo i più colpiti, tanto che da tre giorni la nostra regione è stata dichiarata zona rossa e sono state messe in atto misure restrittive che stanno condizionando, cambiando, costringendo, limitando, stravolgendo le nostre abitudini di vita. Dalla mezzanotte tra sabato 07 e domenica 08 marzo divieto di uscire dalla Lombardia, di spostarsi da una provincia all'altra senza giustificato motivo (e che sia un motivo valido e importante: lavoro, salute, prima necessità), controlli da parte delle forze dell'ordine, multe salate per chi trasgredisce. Scuole chiuse da circa tre settimane, università, biblioteche, centri di aggregazione culturale, cinema, teatri. Vietate le riunioni, gli assembramenti; chiusi gli impianti sportivi. E ora vietato anche uscire di casa. Persino il Presidente della Repubblica ha fatto il suo appello in televisione. Trasmissioni senza pubblico, cerimonie religiose sospese, chiese chiuse, sospesi i matrimoni e persino i funerali. Al supermercato si entra dieci alla volta, con la security che controlla la coda dei clienti all'esterno, suddividendo le file: fila di destra e fila di sinistra. Obbligo di non avvicinarsi, di mantenere le distanze (prima si diceva un metro, ora due), niente strette di mano, niente abbracci, niente baci. Nei social qualcuno scrive: appena tutto questo sarà finito, vorrò abbracciare tutti, persino i pali della luce. Crisi di affetti, distanza tra le persone, annullamento di ogni possibile contatto fisico. Gente che si incontra per strada, amici di vecchia data che bisogna tenere lontani e, allora, si fa anche finta di non vederli, perché fino al giorno prima erano baci e abbracci, quando li incrociavi, e ora non si può più.
Il primo sgomento è stato vedere gli scaffali dei supermercati svuotati, come se fossimo di fronte a una carestia, come se si dovesse fare scorta di alimentari per paura di rimanere senza e morire di fame, una paura atavica. Dopo un'iniziale frenesia, alla terza settimana di questa emergenza, di questo stato di assedio, le emozioni sono molteplici: preoccupazione, ansia, paura, panico, depressione. Tutte negative. Qualcuno accusa i governanti di essere intervenuti tardi, di avere chiuso la stalla quando i buoi erano ormai scappati. Non è servito chiudere gli aeroporti italiani, quando i cinesi giungevano in altri Stati europei e poi raggiungevano il nostro paese in aereo, in autobus e in treno. Non è passato subito il messaggio della gravità del problema, da molti è stato preso sottogamba e lo è tutt'ora, tanto che la gente, fino all'altro giorno, andava al mare, si spostava da una regione all'altra, si ammassava fuori dai bar, dai pub, dalle gelaterie. Non è stato percepito da tutti il pericolo. E' di ieri sera la notizia che tutta l'Italia è dichiarata zona rossa.
Il virus si sta diffondendo a macchia d'olio in tutto il Mondo, sta contagiando persone in ogni stato europeo, ha raggiunto gli Usa, il Brasile e presto toccherà tutti gli Stati. Le Borse crollano, l'economia crolla. Gente che perde il lavoro, che viene messa a "riposo", costretta a prendere ferie o congedi, stipendi che non entrano più nelle famiglie dei lavoratori a partita IVA. Il Mondo è in ginocchio, sconfitto da una malattia che si è rivelata contagiosissima, pur essendo solo un'influenza, ma, a differenza delle altre, con un tasso di mortalità superiore alla media. Colpisce anziani e giovani indistintamente, ma è mortale più per le persone oltre una certa età e con patologie pregresse. Eppure... eppure le strutture ospedaliere sono al collasso, le sale di terapia intensiva e le sale di rianimazione sono colme, così come i reparti di infettivi. Non ci sono strumenti sufficienti per combattere questo virus, non esistono farmaci, non servono antibiotici. I pazienti più gravi vengono intubati, ma sono di questi giorni le notizie che non ci sono abbastanza macchine per intubare, quindi si predilige salvare i giovani piuttosto che le persone con oltre sessant'anni, poiché i primi hanno un'aspettativa di vita maggiore. Si fa appello al senso di responsabilità, ma molti sembrano non capire, continuano a sottovalutare, ci ridono sopra. Circolano vignette, video, battute. Un modo carnevalesco di sdrammatizzare, di esorcizzare la paura della morte che, non neghiamolo, sta sfiorando ognuno di noi. Chi non pensa "E se mi colpisce, se prende proprio me?".
Come viviamo questo momento particolare della nostra epoca così super tecnologica e all'avanguardia? Siamo fiduciosi o ci addormentiamo con un pensiero inquietante? C'è chi non ci pensa? Sicuramente sì, qualcuno ci sarà, qualche fatalista che dirà "Tanto di qualcosa dobbiamo pur morire", ma credo che la maggior parte di noi abbia paura.
Passeremo alla storia, si conteranno i contagiati, i morti, i sopravvissuti. Il bilancio sarà senz'altro positivo, non così per i familiari di chi non ce l'avrà fatta. Ma nessuno di noi dimenticherà mai questo 2020. Di questo sono sicura.
La storia, lo sappiamo, è fatta di corsi e ricorsi, come diceva Vico: a un periodo di eccessivo benessere, che porta inevitabilmente alla perdita dei valori, a non riconoscere più le cose che veramente contano nella vita, tutti presi nel vortice della conquista di maggiori traguardi economico finanziari, segue sempre un periodo di distruzione, determinato ora da una guerra ora da una catastrofe. Epidemie, guerre, carestie hanno costellato la storia dell'umanità sin dai tempi antichi, ripercorrendo corsi ciclici. Oggi forse stiamo vivendo uno di quei momenti.
La globalizzazione, figlia della supremazia dei mercati occidentali a economia capitalistica sui mercati locali dei paesi più poveri, ha portato all'integrazione tra i popoli, nonché alla promiscuità, facilitando la diffusione del virus.
E ora il nuovo flagello ci porta a guardarci dentro, a porre in primo piano le cose che contano davvero, perché la morte non guarda in faccia nessuno, falcia tutti nello stesso modo e ci rende tutti egualmente vulnerabili.
Dopo la guerra, dopo la distruzione, si sa, lentamente si risorge, con nuove energie, nuova voglia di fare, una visione diversa, più fresca e genuina nei confronti del mondo e della vita stessa, pieni di ottimismo e di buoni sentimenti. E questo fa pensare che certe catastrofi siano qualcosa di "necessario", di insito nel meccanismo dell'universo per riequilibrare le sue parti. Ma la storia, proprio con i suoi corsi e ricorsi cui accennavo prima, ha dimostrato che l'uomo non impara, non ricorda, dimentica in fretta e ricade nei medesimi errori.
La cosa che mi colpisce di più in tutta questa vicenda è la limitazione della libertà personale che ci troviamo a vivere per la prima volta nella nostra epoca.
IO STO A CASA è lo slogan di questi giorni. Le Istituzioni raccomandano di limitare le uscite allo stretto necessario, all'acquisto di beni di prima necessità (cibo, per dirla in parole semplici), visite mediche, lavoro. Le uscite devono essere giustificate, accompagnate da un modulo apposito, da esibire nel caso in cui si venga fermati dalla polizia. Se si trasgrediscono le disposizioni, scatta la denuncia, si rischia il carcere.
In vita mia non ho mai, e sottolineo mai, dovuto affrontare nulla di simile. Ed è in momenti come questi che ci si rende conto
di quanto importante sia la libertà. Vivere in zona rossa è un po' come essere
agli arresti domiciliari. A tutti noi sarà capitato di trovarsi costretti in
casa a causa di una malattia, ma non è la stessa cosa: sapere di NON POTERE
USCIRE e di non potere fare un sacco di altre cose, perché ci viene imposto, è a
dir poco destabilizzante.
E' la prima volta che noi della nostra generazione (e di quelle dopo la
nostra), che non abbiamo vissuto la guerra, ci troviamo a dover fare qualcosa - mi verrebbe da dire -
per il bene della patria. Ci viene chiesto un sacrificio comune, siamo chiamati
a rispettare un dovere civico, al quale non siamo abituati (basti pensare ai
comportamenti sconsiderati di molti, come ho accennato sopra, incuranti delle
disposizioni ministeriali, all'insegna di un insano "Me ne frego",
per dirla alla Achille Lauro). E' come se la popolazione fosse divisa a metà: i
rispettosi, ligi alle regole, timorosi e seriamente convinti della gravità
della situazione, e i disobbedienti che non vogliono adempiere al proprio
dovere e che sottovalutano il pericolo al quale espongono se stessi e gli
altri. Sembra non esserci la via di mezzo, quella del buon senso e della
prudenza.
E ora tutti in castigo!
Chissà come torneremo a vivere, quando tutto questo sarà finito? Chissà se avremo
un po' più di senso civico e di rispetto per le regole, se avremo imparato il
vero significato dell'essere responsabili? E chissà se sapremo riconoscere le
cose che contano davvero o continueremo a rincorrere le apparenze e a vivere la
vita in superficie.
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