Leggo l'articolo di Fabio Minazzi, "Scuole: ansia da prestazione".
Lo leggo con interesse, perché mi riguarda in prima persona, in quanto insegnante, e, proprio come tale, la scuola riveste per me non solo il luogo di lavoro, ma il posto in cui ho vissuto e vivo la mia quotidianità da ormai innumerevoli anni.
Minazzi parla di un nuovo virus, secondo il quale i docenti userebbero la tecnologia per rimanere connessi con i propri studenti in un'aula virtuale, mentre le scuole restano chiuse a causa del corona virus. L'autore dell'articolo sostiene che in tal modo si configurerebbe una nuova scuola, in cui gli studenti seguirebbero le lezioni da casa "comodamente, in tutta tranquillità".
E già qui mi pongo una prima domanda: che male c'è in questo?
Minazzi ribadisce che lo studio comporta impegno e sforzo, quindi contesta la comodità determinata da questa nuova forma di insegnamento, ribadendo il concetto che la scuola non deve essere comoda e tranquilla.
Mette quindi in dubbio che tutti possano disporre degli strumenti necessari allo svolgimento di questo tipo di didattica (non tutti gli studenti avrebbero il pc, non tutti l'accesso a Internet...).
Passa quindi a contestare la lezione in streaming, in quanto priva del contatto emotivo docente-discente e sostiene che tutti vogliono essere connessi e interconnessi.
Minazzi si pone una domanda, che ha il sapore di un auspicio: perché non approfittare della situazione storica attuale per disconnettersi?
A suo dire, la chiusura delle scuole potrebbe essere un'occasione per tornare a studiare "veramente", per leggere un libro, per meditare in solitudine, per "riscoprire l'esistenza di un tempo tutto nostro in cui lo studio viene realizzato in prima persona".
E qui mi pongo la seconda domanda: quanti lo farebbero veramente?
Cita quindi gli anni '46 e '47 quando le scuole rimasero chiuse in inverno per circa tre mesi, a causa della mancanza di carbone per il riscaldamento; e gli anni Sessanta, quando scioperi duraturi portarono a un'altra chiusura prolungata. Si e ci domanda se quelle chiusure abbiano generato più ignoranti di quanti ne potrebbe generare quella attuale.
Invita dunque a disconnettersi e a riscoprire la bellezza e la fatica dello studio individuale e personale.
Riflessioni personali, indubbiamente dettate da pensieri positivi, ma, a parer mio, utopistici e non del tutto auspicabili.
Mi spiego: se tutti gli alunni fossero studenti universitari, sicuramente disconnettersi farebbe bene e potrebbero immergersi nello "studio solitario e coscienzioso", ma:
1) non tutti gli studenti sono universitari (i miei, per esempio, sono preadolescenti),
2) i ragazzi di oggi appartengono all'era tecnologica dell'informatica, del digitale, che non c'era ai tempi citati nell'articolo (anni '46 e '47 e Anni Sessanta). Ragion per cui ritengo il pensiero di Minazzi fuori dal tempo, meglio ancora dal nostro tempo, in una parola anacronistico.
Personalmente, ritengo invece importante, oggi più che mai, mantenere un contatto educativo anche virtuale, che è pur sempre meglio di niente.
Io sono del parere che lasciare i nostri studenti allo "sbando educativo didattico" oggi equivalga a perderli.
Un tempo c'erano un maggior senso del dovere e una maggiore dedizione alla fatica dello studio, cose che oggigiorno si sono perse (non per tutti, naturalmente, ma per molti), si rispettavano di più le regole, si era più inclini al sacrificio e, soprattutto, non esistevano le distrazioni dei nostri giorni.
Se lasciassimo perdere il contatto con i nostri studenti (mi riferisco alle scuole secondarie, specialmente a quelle di primo grado, per non parlare delle primarie), i ragazzi si perderebbero nei social, nelle chat, nei videogiochi, si "drogherebbero" di serie televisive e di un'infinità di altre cose che a quei tempi (quelli citati sopra) non esistevano, tipo le sfide demenziali alle quali abbiamo assistito attraverso il web, sfide più o meno pericolose, ma comunque tutte assolutamente da evitare. Credo che sarebbero pochi quelli che avrebbero il buon senso di studiare da soli. La maggior parte degli studenti si trova in una fascia di età non ancora sufficientemente matura per autogestire lo studio e necessita di essere guidata.
Capisco la difficoltà anche (per non dire soprattutto) da parte di noi docenti, specialmente quelli più "anziani", nella quale categoria rientro io stessa, ad accostarci a tecnologie alle quali non eravamo abituati (non siamo nativi digitali e le nuove generazioni "ci bagnano il naso", come si suol dire), ma reputo un nostro preciso dovere in quanto educatori, prima che dispensatori di conoscenze, prenderci cura dei nostri alunni, non abbandonarli, far sentire e vedere loro che ci siamo, che ci stiamo dando da fare per aiutarli, che non intendiamo lasciarli indietro. Così come reputo un nostro preciso dovere darci da fare per imparare le nuove tecnologie, per adeguarci al mondo che cambia in continuazione, perché è proprio dentro a questo mondo che gravitano i ragazzi che ci vengono affidati per la loro crescita. Se non siamo in grado di stare al passo, se non siamo inclini, disposti e disponibili a cambiare per capire il loro mondo, per andare incontro alle loro esigenze di studenti moderni inseriti all'interno di un universo tecnologico, allora non possiamo nemmeno definirci insegnanti tanto meno educatori.
Lo leggo con interesse, perché mi riguarda in prima persona, in quanto insegnante, e, proprio come tale, la scuola riveste per me non solo il luogo di lavoro, ma il posto in cui ho vissuto e vivo la mia quotidianità da ormai innumerevoli anni.
Minazzi parla di un nuovo virus, secondo il quale i docenti userebbero la tecnologia per rimanere connessi con i propri studenti in un'aula virtuale, mentre le scuole restano chiuse a causa del corona virus. L'autore dell'articolo sostiene che in tal modo si configurerebbe una nuova scuola, in cui gli studenti seguirebbero le lezioni da casa "comodamente, in tutta tranquillità".
E già qui mi pongo una prima domanda: che male c'è in questo?
Minazzi ribadisce che lo studio comporta impegno e sforzo, quindi contesta la comodità determinata da questa nuova forma di insegnamento, ribadendo il concetto che la scuola non deve essere comoda e tranquilla.
Mette quindi in dubbio che tutti possano disporre degli strumenti necessari allo svolgimento di questo tipo di didattica (non tutti gli studenti avrebbero il pc, non tutti l'accesso a Internet...).
Passa quindi a contestare la lezione in streaming, in quanto priva del contatto emotivo docente-discente e sostiene che tutti vogliono essere connessi e interconnessi.
Minazzi si pone una domanda, che ha il sapore di un auspicio: perché non approfittare della situazione storica attuale per disconnettersi?
A suo dire, la chiusura delle scuole potrebbe essere un'occasione per tornare a studiare "veramente", per leggere un libro, per meditare in solitudine, per "riscoprire l'esistenza di un tempo tutto nostro in cui lo studio viene realizzato in prima persona".
E qui mi pongo la seconda domanda: quanti lo farebbero veramente?
Cita quindi gli anni '46 e '47 quando le scuole rimasero chiuse in inverno per circa tre mesi, a causa della mancanza di carbone per il riscaldamento; e gli anni Sessanta, quando scioperi duraturi portarono a un'altra chiusura prolungata. Si e ci domanda se quelle chiusure abbiano generato più ignoranti di quanti ne potrebbe generare quella attuale.
Invita dunque a disconnettersi e a riscoprire la bellezza e la fatica dello studio individuale e personale.
Riflessioni personali, indubbiamente dettate da pensieri positivi, ma, a parer mio, utopistici e non del tutto auspicabili.
Mi spiego: se tutti gli alunni fossero studenti universitari, sicuramente disconnettersi farebbe bene e potrebbero immergersi nello "studio solitario e coscienzioso", ma:
1) non tutti gli studenti sono universitari (i miei, per esempio, sono preadolescenti),
2) i ragazzi di oggi appartengono all'era tecnologica dell'informatica, del digitale, che non c'era ai tempi citati nell'articolo (anni '46 e '47 e Anni Sessanta). Ragion per cui ritengo il pensiero di Minazzi fuori dal tempo, meglio ancora dal nostro tempo, in una parola anacronistico.
Personalmente, ritengo invece importante, oggi più che mai, mantenere un contatto educativo anche virtuale, che è pur sempre meglio di niente.
Io sono del parere che lasciare i nostri studenti allo "sbando educativo didattico" oggi equivalga a perderli.
Un tempo c'erano un maggior senso del dovere e una maggiore dedizione alla fatica dello studio, cose che oggigiorno si sono perse (non per tutti, naturalmente, ma per molti), si rispettavano di più le regole, si era più inclini al sacrificio e, soprattutto, non esistevano le distrazioni dei nostri giorni.
Se lasciassimo perdere il contatto con i nostri studenti (mi riferisco alle scuole secondarie, specialmente a quelle di primo grado, per non parlare delle primarie), i ragazzi si perderebbero nei social, nelle chat, nei videogiochi, si "drogherebbero" di serie televisive e di un'infinità di altre cose che a quei tempi (quelli citati sopra) non esistevano, tipo le sfide demenziali alle quali abbiamo assistito attraverso il web, sfide più o meno pericolose, ma comunque tutte assolutamente da evitare. Credo che sarebbero pochi quelli che avrebbero il buon senso di studiare da soli. La maggior parte degli studenti si trova in una fascia di età non ancora sufficientemente matura per autogestire lo studio e necessita di essere guidata.
Capisco la difficoltà anche (per non dire soprattutto) da parte di noi docenti, specialmente quelli più "anziani", nella quale categoria rientro io stessa, ad accostarci a tecnologie alle quali non eravamo abituati (non siamo nativi digitali e le nuove generazioni "ci bagnano il naso", come si suol dire), ma reputo un nostro preciso dovere in quanto educatori, prima che dispensatori di conoscenze, prenderci cura dei nostri alunni, non abbandonarli, far sentire e vedere loro che ci siamo, che ci stiamo dando da fare per aiutarli, che non intendiamo lasciarli indietro. Così come reputo un nostro preciso dovere darci da fare per imparare le nuove tecnologie, per adeguarci al mondo che cambia in continuazione, perché è proprio dentro a questo mondo che gravitano i ragazzi che ci vengono affidati per la loro crescita. Se non siamo in grado di stare al passo, se non siamo inclini, disposti e disponibili a cambiare per capire il loro mondo, per andare incontro alle loro esigenze di studenti moderni inseriti all'interno di un universo tecnologico, allora non possiamo nemmeno definirci insegnanti tanto meno educatori.
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