mercoledì 25 marzo 2020

L'ARTE DELL'ONESTA' lettera aperta ai genitori nei giorni del coronavirus.




        Carissimi,
con questa lettera aperta mi rivolgo a voi genitori di tutte le scuole, specialmente a quelli i cui figli frequentano la Primaria e la Secondaria di Primo Grado.      
Stiamo vivendo, inutile dirlo, un momento particolare della nostra vita, un momento che, in quanto tale, si rivela IMPORTANTE, FONDAMENTALE per la crescita dei Vostri ragazzi.       
Vi parlo (in realtà vi scrivo) con il cuore in mano, lo faccio, prima che come insegnante, come pedagogista, quale sono: NON SOSTITUITEVI AI VOSTRI FIGLI!     
Noi docenti stiamo assistendo alle strategie più svariate (mi verrebbe da dire scontate, già immaginate e da noi previste, supposte, prima ancora che la didattica a distanza avesse luogo) da parte non solo dei nostri studenti ma anche delle loro famiglie (non di tutte, sia ben chiaro, e ci tengo a precisarlo) per effettuare interrogazioni brillanti nonché compiti perfetti o con poche "sbavature". 
Vediamo ragazzi che, durante l'interrogazione, rispondono senza esitazione e in maniera precisa, quando, fino a solo un mese fa, nel momento in cui le scuole erano ancora aperte, non riuscivano a esporre un semplice argomento all'interno della classe reale. Attraverso la videocamera accesa, molti di noi, scorgono l'ombra dei genitori, dai microfoni accesi si ode bisbigliare il suggerimento, a volte si riesce persino a intravedere l'adulto con il libro in mano, pronto a cercare le risposte alle domande rivolte. Vediamo i nostri alunni che, dopo avere risposto, vi cercano con lo sguardo, magari scappa loro persino un sorrisino di soddisfazione come a dire: "Sono stato bravo, mamma, papà, ho dato la risposta corretta".           
Già sono scaltri di loro a organizzarsi (c'è chi ha il tablet accanto al pc oppure il cellulare, strumenti sui quali cercano le soluzioni ai compiti assegnati; c'è chi si prepara l'interrogazione stampando un foglio dal quale leggere quanto esporre e lo pone lateralmente al pc, per cui vediamo i loro sguardi non più diretti in webcam, bensì verso la fonte del suggerimento).       
Permettetemi di dirvi che NON È EDUCATIVO. E lo scrivo in grande, per sottolineare meglio l'errore che state compiendo: non pensiate di fare il bene dei vostri figli in questo modo, aiutandoli a raggiungere la sufficienza, piuttosto che a conquistare un bel voto. No, non è questo che state facendo: STATE INSEGNANDO LORO L'ARTE DELL'INGANNO, LA DISONESTA'.     
Perdonatemi le parole dure e dirette, ma lo dico per il bene dei vostri figli.       
LASCIATELI SBAGLIARE! E' solo con l'errore che si impara, che si cresce, che si diventa grandi.  Fate in modo che si gestiscano da soli, sparite dal loro spazio di lezione, lasciate che sia solo loro. A scuola non ci sarete più, quando torneranno in classe, ognuno nel proprio banco.   
Non commettete l'errore di fare per loro da "spazzaneve", come qualche psicologo ha detto. Non dovete fargli trovare la strada pronta, lasciate che se la costruiscano da soli, con le proprie forze, per loro stessi, per la loro vita futura, nella quale un giorno dovranno affrontare le difficoltà da persone adulte e responsabili, forti delle proprie capacità, fiduciosi in se stessi. Finché avranno voi alle spalle, pronti a sostituirvi a loro nella soluzione dei problemi, non impareranno MAI  a risolverli.    
Il ministro (la ministra) Azzolina ci chiede di valutare i vostri figli: fate in modo che sia davvero così, che non siate voi quelli che ci troviamo a valutare in realtà.
Quello che sto cercando di fare capire ai miei ragazzi, in questi giorni, è che devono continuare a studiare e ad applicarsi non per il voto ma per se stessi.
Pertanto, seguiteli, sì, ma alla giusta distanza , dando loro il vostro supporto magari nella preparazione dell'argomento di studio, rassicurandoli che ce la faranno, al di là di quella che sarà la nostra valutazione che poi, alla fine, si risolve semplicemente in una serie di numeri che lascia il tempo che trova, mentre la lezione di vita che in questo modo darete loro, cioè l'insegnamento di un'onestà che paga, quella rimarrà per sempre.   

    


martedì 24 marzo 2020

OSTAGGI DELLA PIATTAFORMA?

La mia 3^E, qualche giorno dopo la chiusura della scuola


La mia postazione di lavoro in fase attiva


La realtà virtuale ha completamente invaso le nostre vite. Oggi più che mai è questa a dominare il mondo. E mi viene da pensare: meno male che esiste. Immagino come sarebbero le nostre giornate, in questo terribile periodo di clausura, di quarantena, di arresti domiciliari e chi più ne ha più ne metta per definire il tragico momento che stiamo vivendo.   
Il virtuale è ciò che ci rende possibile il contatto, quello che il virus ci sta negando. Se il virtuale non esistesse, saremmo tutti isolati, soli, chiusi dentro alle nostre case, senza rapporti di alcun tipo con il mondo fuori.       
A proposito, esiste ancora il Mondo? Me lo stavo chiedendo giusto ieri. Ho spalancato la finestra della cucina e ho guardato oltre: sì, c'era. C'era anche stamattina. Incredibile!        
La cosa che colpisce di più in questi giorni è il silenzio. Un silenzio surreale. 
Non si sentono più le grida dei bambini che giocano in cortile, non si sente più il rumore del pallone che sbatte contro la porta del garage, non si sente più la voce di qualche mamma che chiama, non si sentono più le auto e i motorini. Fino a qualche sera fa, udivo, a un'ora precisa della sera, alcuni rumori che richiamavano la mia attenzione e mi facevano dire: ok, le persone esistono ancora. Erano il battito di mani che applaudivano l'operato dei medici, era la voce di qualcuno che intonava cori sul balcone, era il suono di un disco a tutto volume che proveniva da qualche appartamento, un disco che riproduceva canzoni italiane, piuttosto che l'inno nazionale, mentre il tricolore ondeggia alla brezza di questa strana primavera, accanto a striscioni arcobaleno appesi alle ringhiere con impressa la scritta Ce la faremo.        
Da qualche giorno, però, tutto tace, tutto è silenzio attorno a casa mia. Quasi non me ne sono accorta: è svanito tutto senza fare rumore. Come se una sorta di arrendevolezza avesse colto i promotori di quei suoni, di quelle canzoni, di quei battiti di mani. Silenzio. Un silenzio che sgomenta. Poco fa, ho sentito il cinguettare di un uccello che si era posato su un ramo di fronte alla mia finestra. Mi ha quasi fatta sussultare. Ho pensato che per qualcuno la vita continua come niente fosse. Ma quel qualcuno non ha parole umane.
Noi uomini siamo costretti a vivere chiusi in casa da diverso tempo ormai. 
E chissà quanto ancora durerà questa clausura... Ma, come dicevo poc'anzi, fortunatamente esiste il virtuale.     
Ognuno ha il proprio spazio virtuale nel quale trascorrere la giornata: c'è chi lo passa dentro ai social e chi in streaming, con lo smart working, chi si perde dentro Oculus Rift.        
Una delle realtà che accomuna di questi tempi tutte le famiglie con figli in età scolare è la Piattaforma Classroom di gsuite. Alunni, genitori e docenti: tutti ostaggio della piattaforma.       
Da quando le scuole sono state chiuse in base al decreto ministeriale, ci si è dovuti attivare con la didattica a distanza. In pochi giorni, migliaia di insegnanti e alunni hanno dovuto imparare da zero a utilizzare questo strumento che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Lo scopo è quello di mantenere i contatti con gli studenti, di non abbandonarli a se stessi, di portare avanti anche a distanza la didattica, di non perdere l'anno.      
Quello che si è verificato, all'inizio, è stato il "delirio" collettivo. Parlo dal mio punto di vista, che è quello del docente, ma immagino anche cosa possa essere stato per le famiglie dei miei ragazzi. Una parola per riassumere il tutto: STRESS.
Ho ancora in mente il giorno dell'attivazione, una domenica. Tutto il corpo docente della mia scuola in attesa dal mattino, tutti connessi, tutti pronti con il pc e con i cellulari; messaggi infiniti tra di noi: parte, non parte? Ci possiamo registrare? Quando ci danno le credenziali? Il Dirigente tempestato di telefonate e Whatsapp da ogni dove, un'attesa lunga ed estenuante, fatta di ansia e trepidazione. Poi, finalmente, verso sera... pronti, partenza, via!
Una nottata per approntare tutto, per registrarci, per attivare la piattaforma, i nostri corsi, creare i codici, i link per le videoconferenze che sarebbero partite l'indomani con gli alunni che non vedevamo più da giorni. Chi non sapeva come fare, chi, poco avvezzo all'uso del pc e di certi strumenti piuttosto che programmi, colto da ansia inenarrabile; il cellulare impazzito che continuava a squillare: messaggi con richieste di aiuto, telefonate fino a un'ora assurda.
 
Poi, come d'incanto, il mattino del lunedì, ecco gli alunni connessi. Ecco, di nuovo i loro volti. Non più come eravamo abituati a vederli dietro i banchi di scuola, no. Erano volti smarriti, tesi, quasi impauriti. Li ho accolti col sorriso più rassicurante che sono riuscita a sfoderare in quel momento. Tranquilli, ragazzi, stiamo tutti bene. Era questo il messaggio importante da fare arrivare in quel momento. Un'ora di collegamento così, a informarsi sullo stato di salute di ognuno di loro e dei loro familiari (perdonatemi l'assenza della "g", ma in questo sono ancora vecchio stampo e mi piace conservare la tradizione), un primo timido approccio tra l'insegnante coordinatore di classe e i suoi ragazzi.
Dal giorno seguente, il pandemonio (termine che calza a pennello in clima di pandemia): insegnanti connessi per dieci/dodici ore al giorno, per capire l'uso di questa malefica (seppur benedetta) piattaforma, la scoperta, individuale e collettiva in Meet/Hangouts (pensare che fino al giorno prima nemmeno sapevo esistessero), delle sue varie funzioni e opportunità, la registrazione degli alunni nelle classi virtuali con tutti i problemi annessi e connessi, la creazione di lezioni ad hoc da caricare in piattaforma (in .ppt le più semplici), la difficoltà di caricare il materiale di studio e i compiti da svolgere, il ritorno di questi ultimi, il non riuscire da parte di alcuni alunni a inviarli e da parte di noi docenti di renderli, l'ansia da prestazione reciproca, genitori che contattano i docenti via mail chiedendo aiuto perché i figli non riescono a inviare il compito e temono di essere valutati negativamente, i codici di accesso ai corsi, i link delle video-lezioni, alunni che perdono le password e non riescono più a rientrare...
ALT! STOP! FERMI TUTTI!   


la vignetta che circola in questi giorni in Internet
e che rende molto bene la situazione
Andrà tutto bene, ripetiamolo come un mantra: andrà tutto bene. E dobbiamo crederci, anche se non per tutti sarà così, perché qui c'è chi impazzisce per la didattica a distanza, ma c'è soprattutto gente che muore. Siamo un paese, un intero popolo in ginocchio, l'intero mondo lo è.    
Allora (lo dico anche a me stessa che di questo stress da piattaforma mi sento una delle tante vittime) calmiamoci, cerchiamo di guardare le cose nel giusto modo, prendiamo le distanze (di un metro, va bene?) da questo mostro informatico che si sta fagocitando del mondo umano della scuola e tiriamo un sospiro di sollievo.     
Sento alunni che continuamente mi chiedono come faranno a essere valutati, avverto la tensione dei genitori per come finirà questo anno scolastico (ce lo stiamo chiedendo tutti, a dire il vero), colleghi in ansia per i compiti da somministrare, per la mancata presenza degli studenti ai propri corsi (anche ai miei non si sono iscritti ancora tutti e forse nemmeno lo faranno), ansia per come gestire le interrogazioni online (si faranno suggerire, avranno il libro aperto davanti, si saranno preparati un foglio con la lezione scritta da recitare a memoria come una poesia, salvo cadere davanti alla prima domanda?) e i compiti scritti, le verifiche (quale attendibilità avranno?). Ci sarà Internet, ci saranno mamma e papà, fratelli e sorelle maggiori pronti a sostituirsi ai nostri alunni, a svolgere le verifiche al posto loro? Forse in alcuni casi sarà proprio così, ma in altri (mi auguro la maggioranza) no.      
E, allora, quello che dico in streaming ogni mattina ai miei ragazzi è che non devono pensare al voto in questo momento, non devono studiare per avere un buon punteggio: devono farlo per loro stessi, per conoscere, per crescere con le cose nuove che potranno imparare da questi incontri con i loro insegnanti, attraverso il monitor del pc, attraverso la nostra voce che esce dall'altoparlante e li raggiunge dentro alle loro case, nelle quali entriamo anche noi, ospiti spero desiderati, che li aiutano a mantenere un contatto con la realtà, con la vita che va avanti nonostante tutto, che diamo loro l'opportunità di crescere, di responsabilizzarsi, di dimostrarsi onesti prima di tutto con se stessi e dopo, solo dopo, con noi. Il voto? Non è ciò che conta nella vita, non lo è soprattutto in questo particolare momento. Quello che conta, e che la piattaforma ci consente di fare, è rimanere in contatto, continuare a stare insieme e costruire noi stessi, mattoncino dopo mattoncino un passo alla volta, un giorno alla volta.

La postazione a fine giornata


giovedì 12 marzo 2020

"OGGI HO TRASGREDITO AL DECRETO", Simone Innocenti



In questi giorni in cui nei social (e non solo) si scrive di tutto, questa è la cosa più bella che ho letto.   
L'ha scritta il mio amico Simone Innocenti. Lo ringrazio per avermi dato il permesso di ospitarla nel mio blog. Mi sembrava troppo bella, per lasciare che si perdesse nella miriade di messaggi che circolano e che poi finiscono nel dimenticatoio.       
Le sue sono parole cariche di Poesia e di Amore.


Simone Innocenti


Oggi ho trasgredito al decreto. E sono uscito di casa, non appena ho preso un paio di cose da mangiare. Ho preso la strada e mi sono messo a camminare, c'era silenzio: per un attimo, ma solo per un attimo, mi è sembrato di tornare nel paese nel quale ero cresciuto, e non in questo sobborgo senza identità che i politici del mio paese hanno trasformato negli ultimi trenta anni autorizzando a costruire ovunque.
Per un attimo, dicevo, mi è parso un paradiso. Poi ho pensato che la cosa che più mi manca, da un mese e mezzo a questa parte, è abbracciare mio babbo. Perché non lo abbraccio da un mese e mezzo, da prima cioè che buona parte del mondo si accorgesse che questo virus fosse un problema. E da prima che adesso questa mediocre classe politica se ne accorgesse. Perché bastava leggere i giornali - che ormai nessuno legge più - per rendersi conto che OMS aveva parlato di "emergenza globale". Ho pensato questo mentre camminavo, che non lo potevo abbracciare e che non lo stavo abbracciando da un mese e mezzo. E che da un mese e mezzo gli avevo imposto di non uscire più di casa. E che lui, in questo mese e mezzo, altro non ha fatto che andare al campo dove non c'è nessuno e tornare indietro. E altro non ha fatto che osservare - fino a quando hanno annullato tutto - le regole che gli avevo imposto quando si sentiva di uscire: almeno un metro di distanza da tutti quando era a fare le prove nel coro della parrocchia. 
Poi da dieci giorni buoni - se non di più - gli ho impedito di uscire. Con lui, invece, sto il meno possibile da un mese e mezzo perché la cronaca mi ha portato a girare ovunque: la lontananza fisica nei suoi confronti è una forma di tutela che tengo, ed è difficilissimo. Mangio dall'altro capo del tavolo, passo i piatti a distanza. Lui ha protestato una volta sola, all'inizio. Mi sono messo a urlare, lui c'è rimasto malissimo: mio babbo è un uomo dolcissimo. Mi sono sentito una merda, gli ho spiegato che era pericoloso, che chi dice che è un raffreddore non capisce un cazzo, è da Tso, malati mentali. Alla stessa stregua di chi va in giro a - e stava andando in giro - a fare aperitivi o a fare shooping oppure usciva fuori alla cazzo di cane, magari andando al mare. Stipati su un'auto per raggiungere la meta. Mi ha detto che esageravo, ho replicato che forse era così, ma non si poteva andare tanto per il sottile, io non volevo rischiare di perderlo. Anche al lavoro ho tenuto da un paio di mesi le persone a distanza, mi prendevano per pazzo. Anche fuori per strada ho fatto lo stesso.
A questo ho pensato mentre la strada saliva e stavo contravvenendo al decreto. E ho pensato che questo decreto non serve a nulla, non è efficace, è pensato male, non serve proprio: troppo tollerante con la stupidità umana. Ma indicativo di chi l'ha partorito. Va bene solo sulla carta, non nella realtà. Ho raccolto un fiore, era bello e giallo. Ho pensato che non so come si chiama, che nome ha, che anche in fatto di botanica sono ignorante, che sui libri che leggo gli scrittori sanno i nomi dei fiori, sapevano cosa fosse la natura, nominandola la apprezzavano. Ho raccolto altri fiori, alla fine erano un mazzetto, giallo d'ape.
Sotto i miei piedi la ghiaia ha fatto rumore. E ho pensato che adesso la cosa più difficile era di spiegare che avevo violato il decreto, che non l'avrebbe presa bene questa cosa, mi avrebbe rimproverato, bisogna essere uomini e non cretinetti a giro per il mondo che è già sovraffollato di cretinetti. Ho sistemato i fiori di campo accanto agli altri fiori, poi ho carezzato la tomba di mamma.
Le gambe non mi hanno retto, si sono afflosciate, sono finito con la schiena appoggiata alla colonna. E ho scoperto che babbo aveva contravvenuto al mio divieto, quello di uscire al massimo - in questi due mesi - solo per andare al campo. I fiori sulla tomba di mamma erano, in pratica, ancora vivi. E c'era la mimosa, lei che a quel fiore e a quella festa teneva tantissimo, lei che quel fiore lo metteva ovunque in casa quel giorno e vicino alla macchina da cucire, quando ancora cuciva. E sulla tavola, la sera dell'8 marzo, quando si cenava ancora tutti assieme. O trovavo la cena pronta tornando dal lavoro.
Poi, io e mamma, ci siamo messi a parlare. E ho pensato che la cosa che mi manca di più da un po' di tempo a questa parte è quella di abbracciare mio babbo.

Grazie, Simone


mercoledì 11 marzo 2020

SCUOLE: ANSIA DA PRESTAZIONE



Leggo l'articolo di Fabio Minazzi, "Scuole: ansia da prestazione".       
Lo leggo con interesse, perché mi riguarda in prima persona, in quanto insegnante, e, proprio come tale, la scuola riveste per me non solo il luogo di lavoro, ma il posto in cui ho vissuto e vivo la mia quotidianità da ormai innumerevoli anni.
Minazzi parla di un nuovo virus, secondo il quale i docenti userebbero la tecnologia per rimanere connessi con i propri studenti in un'aula virtuale, mentre le scuole restano chiuse a causa del corona virus. L'autore dell'articolo sostiene che in tal modo si configurerebbe una nuova scuola, in cui gli studenti seguirebbero le lezioni da casa "comodamente, in tutta tranquillità".       
E già qui mi pongo una prima domanda: che male c'è in questo?     
Minazzi ribadisce che lo studio comporta impegno e sforzo, quindi contesta la comodità determinata da questa nuova forma di insegnamento, ribadendo il concetto che la scuola non deve essere comoda e tranquilla.  
Mette quindi in dubbio che tutti possano disporre degli strumenti necessari allo svolgimento di questo tipo di didattica (non tutti gli studenti avrebbero il pc, non tutti l'accesso a Internet...).      
Passa quindi a contestare la lezione in streaming, in quanto priva del contatto emotivo docente-discente e sostiene che tutti vogliono essere connessi e interconnessi.  
Minazzi si pone una domanda, che ha il sapore di un auspicio: perché non approfittare della situazione storica attuale per disconnettersi?          
A suo dire, la chiusura delle scuole potrebbe essere un'occasione per tornare a studiare "veramente", per leggere un libro, per meditare in solitudine, per "riscoprire l'esistenza di un tempo tutto nostro in cui lo studio viene realizzato in prima persona".  
E qui mi pongo la seconda domanda: quanti lo farebbero veramente?      
Cita quindi gli anni '46 e '47 quando le scuole rimasero chiuse in inverno per circa tre mesi, a causa della mancanza di carbone per il riscaldamento; e gli anni Sessanta, quando scioperi duraturi portarono a un'altra chiusura prolungata. Si e ci domanda se quelle chiusure abbiano generato più ignoranti di quanti ne potrebbe generare quella attuale.       
Invita dunque a disconnettersi e a riscoprire la bellezza e la fatica dello studio individuale e personale. 
Riflessioni personali, indubbiamente dettate da pensieri positivi, ma, a parer mio, utopistici e non del tutto auspicabili.  
Mi spiego: se tutti gli alunni fossero studenti universitari, sicuramente disconnettersi farebbe bene e potrebbero immergersi nello "studio solitario e coscienzioso", ma:     
1) non tutti gli studenti sono universitari (i miei, per esempio, sono   preadolescenti), 
2) i ragazzi di oggi appartengono all'era tecnologica dell'informatica, del digitale, che non c'era ai tempi citati nell'articolo (anni '46 e '47 e Anni Sessanta). Ragion per cui ritengo il pensiero di Minazzi fuori dal tempo, meglio ancora dal nostro tempo, in una parola anacronistico.    
Personalmente, ritengo invece importante, oggi più che mai, mantenere un contatto educativo anche virtuale, che è pur sempre meglio di niente.  
Io sono del parere che lasciare i nostri studenti allo "sbando educativo didattico" oggi equivalga a perderli.  
Un tempo c'erano un maggior senso del dovere e una maggiore dedizione alla fatica dello studio, cose che oggigiorno si sono perse (non per tutti, naturalmente, ma per molti), si rispettavano di più le regole, si era più inclini al sacrificio e, soprattutto, non esistevano le distrazioni dei nostri giorni.
Se lasciassimo perdere il contatto con i nostri studenti (mi riferisco alle scuole secondarie, specialmente a quelle di primo grado, per non parlare delle primarie), i ragazzi si perderebbero nei social, nelle chat, nei videogiochi, si "drogherebbero" di serie televisive e di un'infinità di altre cose che a quei tempi (quelli citati sopra) non esistevano, tipo le sfide demenziali alle quali abbiamo assistito attraverso il web, sfide più o meno pericolose, ma comunque tutte assolutamente da evitare. Credo che sarebbero pochi quelli che avrebbero il buon senso di studiare da soli. La maggior parte degli studenti si trova in una fascia di età non ancora sufficientemente matura per autogestire lo studio e necessita di essere guidata.    
Capisco la difficoltà anche (per non dire soprattutto) da parte di noi docenti, specialmente quelli più "anziani", nella quale categoria rientro io stessa, ad accostarci a tecnologie alle quali non eravamo abituati (non siamo nativi digitali e le nuove generazioni "ci bagnano il naso", come si suol dire), ma reputo un nostro preciso dovere in quanto educatori, prima che dispensatori di conoscenze, prenderci cura dei nostri alunni, non abbandonarli, far sentire e vedere loro che ci siamo, che ci stiamo dando da fare per aiutarli, che non intendiamo lasciarli indietro. Così come reputo un nostro preciso dovere darci da fare per imparare le nuove tecnologie, per adeguarci al mondo che cambia in continuazione, perché è proprio dentro a questo mondo che gravitano i ragazzi che ci vengono affidati per la loro crescita. Se non siamo in grado di stare al passo, se non siamo inclini, disposti e disponibili a cambiare per capire il loro mondo, per andare incontro alle loro esigenze di studenti moderni inseriti all'interno di un universo tecnologico, allora non possiamo nemmeno definirci insegnanti tanto meno educatori.

L'articolo di Fabio Minazzi


martedì 10 marzo 2020

PASSEREMO ALLA STORIA



Passeremo alla storia. 
Tra qualche anno si leggerà nei libri di questo 2020, bisestile in tutti i sensi, secondo il detto "anno bisesto, anno funesto".
Il pensiero della guerra non mi ha mai sfiorata, nel senso che non ho mai creduto che mi sarei trovata a vivere all'interno di un conflitto, tantomeno uno di dimensioni mondiali. Le uniche guerre con cui ho avuto a che fare sono state quelle studiate nei libri di storia e poi spiegate ai miei alunni in tutti questi anni di insegnamento, guerre che hanno coinvolto popoli dell'antichità, dell'età di mezzo, il Medioevo, guerre dell'età moderna, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e conflitti contemporanei, quelli che ancora oggi si combattono localmente e di cui si parla nei servizi del tg. Ma sono state e sono tutte guerre "lontane" da me e dal mio mondo. Invece adesso ci troviamo tutti coinvolti in una nuova guerra che sta assumendo carattere mondiale: la guerra del virus COVID-19, più noto come corona virus. Esagero nel definirla una guerra? Forse. Ma forse no. Stiamo vivendo una situazione che mai e poi mai avremmo creduto di dover vivere e c'è chi combatte. I combattenti appartengono a tre categorie: i malati, specialmente quelli gravi che lottano per sopravvivere all'attacco di un virus aggressivissimo; le forze dell'ordine, che cercano di mettere in atto misure contenitive; ma soprattutto gli eroi di questa dura battaglia, i medici, gli infermieri e gli operatori socio sanitari ai quali dobbiamo tutta la nostra gratitudine.     
Non mi dilungherò a parlare del virus, in quanto da circa un mese non si parla d'altro in televisione, sui giornali, alla radio. Abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto in questo periodo.         
Sappiamo che si è sviluppato in Cina, mesi fa. I mezzi di informazione di massa ne parlavano come di qualcosa lontano da noi, troppo lontano per temere un eventuale contagio.    
Ho ancora presenti le parole di una mia alunna di prima media: <<Prof, io ho paura. Non arriverà mica qui?>>. Allo stesso modo, ho presente il mio sorriso rassicuratore e il tono materno con cui le ho risposto: <<Ma no, tranquilla, non c'è da avere nessuna paura. Siamo da tutt'altra parte del mondo>>.  
Ed eccoci qui, ostaggi del virus, e, tra gli Italiani, proprio noi lombardi siamo i più colpiti, tanto che da tre giorni la nostra regione è stata dichiarata zona rossa e sono state messe in atto misure restrittive che stanno condizionando, cambiando, costringendo, limitando, stravolgendo le nostre abitudini di vita. Dalla mezzanotte tra sabato  07 e domenica 08 marzo divieto di uscire dalla Lombardia, di spostarsi da una provincia all'altra senza giustificato motivo (e che sia un motivo valido e importante: lavoro, salute, prima necessità), controlli da parte delle forze dell'ordine, multe salate per chi trasgredisce. Scuole chiuse da circa tre settimane, università, biblioteche, centri di aggregazione culturale, cinema, teatri. Vietate le riunioni, gli assembramenti; chiusi gli impianti sportivi. E ora vietato anche uscire di casa. Persino il Presidente della Repubblica ha fatto il suo appello in televisione. Trasmissioni senza pubblico, cerimonie religiose sospese, chiese chiuse, sospesi i matrimoni e persino i funerali. Al supermercato si entra dieci alla volta, con la security che controlla la coda dei clienti all'esterno, suddividendo le file: fila di destra e fila di sinistra. Obbligo di non avvicinarsi, di mantenere le distanze (prima si diceva un metro, ora due), niente strette di mano, niente abbracci, niente baci. Nei social qualcuno scrive: appena tutto questo sarà finito, vorrò abbracciare tutti, persino i pali della luce. Crisi di affetti, distanza tra le persone, annullamento di ogni possibile contatto fisico. Gente che si incontra per strada, amici di vecchia data che bisogna tenere lontani e, allora, si fa anche finta di non vederli, perché fino al giorno prima erano baci e abbracci, quando li incrociavi, e ora non si può più.     
Il primo sgomento è stato vedere gli scaffali dei supermercati svuotati, come se fossimo di fronte a una carestia, come se si dovesse fare scorta di alimentari per paura di rimanere senza e morire di fame, una paura atavica. Dopo un'iniziale frenesia, alla terza settimana di questa emergenza, di questo stato di assedio, le emozioni sono molteplici: preoccupazione, ansia, paura, panico, depressione. Tutte negative. Qualcuno accusa i governanti di essere intervenuti tardi, di avere chiuso la stalla quando i buoi erano ormai scappati. Non è servito chiudere gli aeroporti italiani, quando i cinesi giungevano in altri Stati europei e poi raggiungevano il nostro paese in aereo, in autobus e in treno. Non è passato subito il messaggio della gravità del problema, da molti è stato preso sottogamba e lo è tutt'ora, tanto che la gente, fino all'altro giorno, andava al mare, si spostava da una regione all'altra, si ammassava fuori dai bar, dai pub, dalle gelaterie. Non è stato percepito da tutti il pericolo. E' di ieri sera la notizia che tutta l'Italia è dichiarata zona rossa.
Il virus si sta diffondendo a macchia d'olio in tutto il Mondo, sta contagiando persone in ogni stato europeo, ha raggiunto gli Usa, il Brasile e presto toccherà tutti gli Stati. Le Borse crollano, l'economia crolla. Gente che perde il lavoro, che viene messa a "riposo", costretta a prendere ferie o congedi, stipendi che non entrano più nelle famiglie dei lavoratori a partita IVA. Il Mondo è in ginocchio, sconfitto da una malattia che si è rivelata contagiosissima, pur essendo solo un'influenza, ma, a differenza delle altre, con un tasso di mortalità superiore alla media. Colpisce anziani e giovani indistintamente, ma è mortale più per le persone oltre una certa età e con patologie pregresse. Eppure... eppure le strutture ospedaliere sono al collasso, le sale di terapia intensiva e le sale di rianimazione sono colme, così come i reparti di infettivi. Non ci sono strumenti sufficienti per combattere questo virus, non esistono farmaci, non servono antibiotici. I pazienti più gravi vengono intubati, ma sono di questi giorni le notizie che non ci sono abbastanza macchine per intubare, quindi si predilige salvare i giovani piuttosto che le persone con oltre sessant'anni, poiché i primi hanno un'aspettativa di vita maggiore. Si fa appello al senso di responsabilità, ma molti sembrano non capire, continuano a sottovalutare, ci ridono sopra. Circolano vignette, video, battute. Un modo carnevalesco di sdrammatizzare, di esorcizzare la paura della morte che, non neghiamolo, sta sfiorando ognuno di noi. Chi non pensa "E se mi colpisce, se prende proprio me?".      
Come viviamo questo momento particolare della nostra epoca così super tecnologica e all'avanguardia? Siamo fiduciosi o ci addormentiamo con un pensiero inquietante? C'è chi non ci pensa? Sicuramente sì, qualcuno ci sarà, qualche fatalista che dirà "Tanto di qualcosa dobbiamo pur morire", ma credo che la maggior parte di noi abbia paura.
Passeremo alla storia, si conteranno i contagiati, i morti, i sopravvissuti. Il bilancio sarà senz'altro positivo, non così per i familiari di chi non ce l'avrà fatta. Ma nessuno di noi dimenticherà mai questo 2020. Di questo sono sicura.
La storia, lo sappiamo, è fatta di corsi e ricorsi, come diceva Vico: a un periodo di eccessivo benessere, che porta inevitabilmente alla perdita dei valori, a non riconoscere più le cose che veramente contano nella vita, tutti presi nel vortice della conquista di maggiori traguardi economico finanziari, segue sempre un periodo di distruzione, determinato ora da una guerra ora da una catastrofe. Epidemie, guerre, carestie hanno costellato la storia dell'umanità sin dai tempi antichi, ripercorrendo corsi ciclici. Oggi forse stiamo vivendo uno di quei momenti.
La globalizzazione, figlia della supremazia dei mercati occidentali a economia capitalistica sui mercati locali dei paesi più poveri, ha portato all'integrazione tra i popoli, nonché alla promiscuità, facilitando la diffusione del virus.              
E ora il nuovo flagello ci porta a guardarci dentro, a porre in primo piano le cose che contano davvero, perché la morte non guarda in faccia nessuno, falcia tutti nello stesso modo e ci rende tutti egualmente vulnerabili.   
Dopo la guerra, dopo la distruzione, si sa, lentamente si risorge, con nuove energie, nuova voglia di fare, una visione diversa, più fresca e genuina nei confronti del mondo e della vita stessa, pieni di ottimismo e di buoni sentimenti. E questo fa pensare che certe catastrofi siano qualcosa di "necessario", di insito nel meccanismo dell'universo per riequilibrare le sue parti. Ma la storia, proprio con i suoi corsi e ricorsi cui accennavo prima, ha dimostrato che l'uomo non impara, non ricorda, dimentica in fretta e ricade nei medesimi errori.         
La cosa che mi colpisce di più in tutta questa vicenda è la limitazione della libertà personale che ci troviamo a vivere per la prima volta nella nostra epoca.
IO STO A CASA è lo slogan di questi giorni. Le Istituzioni raccomandano di limitare le uscite allo stretto necessario, all'acquisto di beni di prima necessità (cibo, per dirla in parole semplici), visite mediche, lavoro. Le uscite devono essere giustificate, accompagnate da un modulo apposito, da esibire nel caso in cui si venga fermati dalla polizia. Se si trasgrediscono le disposizioni, scatta la denuncia, si rischia il carcere.


In vita mia non ho mai, e sottolineo mai, dovuto affrontare nulla di simile.  Ed è in momenti come questi che ci si rende conto di quanto importante sia la libertà. Vivere in zona rossa è un po' come essere agli arresti domiciliari. A tutti noi sarà capitato di trovarsi costretti in casa a causa di una malattia, ma non è la stessa cosa: sapere di NON POTERE USCIRE e di non potere fare un sacco di altre cose, perché ci viene imposto, è a dir poco destabilizzante.
E' la prima volta che noi della nostra generazione (e di quelle dopo la nostra), che non abbiamo vissuto la guerra, ci troviamo a dover fare qualcosa - mi verrebbe da dire - per il bene della patria. Ci viene chiesto un sacrificio comune, siamo chiamati a rispettare un dovere civico, al quale non siamo abituati (basti pensare ai comportamenti sconsiderati di molti, come ho accennato sopra, incuranti delle disposizioni ministeriali, all'insegna di un insano "Me ne frego", per dirla alla Achille Lauro). E' come se la popolazione fosse divisa a metà: i rispettosi, ligi alle regole, timorosi e seriamente convinti della gravità della situazione, e i disobbedienti che non vogliono adempiere al proprio dovere e che sottovalutano il pericolo al quale espongono se stessi e gli altri. Sembra non esserci la via di mezzo, quella del buon senso e della prudenza.  
E ora tutti in castigo!     
Chissà come torneremo a vivere, quando tutto questo sarà finito? Chissà se avremo un po' più di senso civico e di rispetto per le regole, se avremo imparato il vero significato dell'essere responsabili? E chissà se sapremo riconoscere le cose che contano davvero o continueremo a rincorrere le apparenze e a vivere la vita in superficie.


giovedì 5 marzo 2020

AI MIEI RAGAZZI DI 1^, 2^ e 3^ E


Casa della prof, 05 03 2020




    Buongiorno, ragazzi,   
come state?      
In questi giorni di chiusura delle scuole e in questo clima di incertezza che tutto il Paese sta vivendo, cerco di immaginare quali possano essere i vostri pensieri e le vostre paure, ma confesso che non ci riesco. Mi rendo conto che vedo la situazione con gli occhi dell'adulto e non con quelli del preadolescente e dell'adolescente, quali siete voi. Tuttavia, nemmeno con quelli che mi appartengono riesco a vedere chiaro. Già, proprio così, perché di chiaro c'è ben poco. Ognuno dice la propria, come avrete notato o come vi avranno riferito i vostri genitori. La televisione non parla d'altro, su qualunque canale ci si sintonizzi l'argomento è sempre lo stesso: il coronavirus o COVID-19 per usare il termine scientifico. I social straripano di post sull'argomento. Le notizie sono ora allarmanti ora rassicuranti. I mass media ci propinano quotidianamente i dati riferiti a persone contagiate, in terapia intensiva e in rianimazione, nonché il numero dei morti, regione per regione. Sembra un bollettino di guerra.    
E, in tutto questo, ci dicono di stare tranquilli, che basta lavarsi bene le mani, stare a due metri di distanza dagli altri, non frequentare luoghi affollati, tossire e starnutire nell'incavo del braccio, non toccarsi bocca, occhi e naso quando siamo fuori casa, ecc... Intanto il numero dei contagiati aumenta di giorno in giorno e le scuole, così come altre attività, rimangono chiuse. Allora immagino che qualcuno di voi si domandi perché. Come vi sentite a questo proposito? Come state vivendo questa "vacanza forzata"? Vi sentite in vacanza o no? Io, personalmente, no. E credo che nessun lavoratore ci si senta. Molti stanno lavorando da casa con il sistema dello smart working, obbligatorio per la Pubblica Amministrazione; altri si ritrovano disoccupati, con tutte le conseguenze drammatiche che questo comporta.      
Suppongo che qualcuno di voi abbia forse esultato quando è stata comunicata la notizia della chiusura delle scuole. <<Evviva, niente lezioni, niente compiti!>>. Sembrava quasi un premio, vero? Questo per un giorno, per due, per tre. Poi... poi deve essere scattato nella testa di ognuno qualcosa, quando la chiusura è stata prolungata di un'altra settimana. E ora che si parla del 15 Marzo, come possibile data di riapertura (sempre che nel frattempo la situazione non peggiori ulteriormente), sono pronta a scommettere che la spensieratezza iniziale è svanita e al suo posto è subentrata quella che noi adulti abbiamo percepito da subito: la preoccupazione.
Ma, se questo stato d'animo si protrae nel tempo, tende a trasformarsi in ansia e poi in angoscia, per alcuni addirittura in panico. Ed ecco che l'irrazionalità pende il sopravvento.      
Quindi? Che cosa dovremmo fare, mi chiederete?  
Cercate di stare sereni (qualcuno di voi dirà: <<E chi si è mai preoccupato?>>, ma non per tutti è così) e seguite i consigli che vi danno i vostri genitori e gli adulti di riferimento; seguite le regole igieniche di base come lavarsi le mani (bene, mi raccomando, non velocemente!, dito per dito, palmo e dorso per almeno 20 secondi), utilizzate salviette personali, evitate i bagni pubblici; evitate gli ambienti affollati (tutte cose che avrete sentito dire migliaia di volte in questi giorni, ma ve le ricordo anch'io). Pare che il virus colpisca soprattutto anziani, adulti e sicuramente persone già debilitate, per cui voi dovreste stare tranquilli.     
Le scuole sono chiuse per limitare il contagio e la diffusione del virus, perché voi potreste essere portatori sani o malati asintomatici, cioè persone contagiate che non accusano i sintomi.    
Detto tutto questo (e sono cose che, sono sicura, conoscete già), vengo a noi.
Non sentitevi abbandonati dai vostri insegnanti, perché noi ci siamo, vi pensiamo e ci stiamo attivando per venire incontro al problema studio, compiti, recuperi. NON ANGOSCIATEVI, vi prego, non figuratevi scenari catastrofici alla riapertura della scuola: saremo clementi e comprensivi. Sappiate che nemmeno noi docenti abbiamo mai vissuto nulla del genere nella nostra vita, quindi siamo tutti sulla stessa barca, come si suol dire, e capiamo perfettamente le difficoltà che ci troveremo ad affrontare insieme. Insieme, capito? Non da soli.    
Voglio tranquillizzare soprattutto voi, ragazzi di prima, e poi voi, ragazzi di seconda che siete sempre così ossessionati dalle malattie (nelle ore di cittadinanza e geografia mi portate sempre su quel discorso); mi preoccupo meno, invece, per le ansie di voi, ragazzi di terza, un po' perché siete più grandi e più maturi, un po' perché vi vedevo già in classe, gli ultimi tempi prima della chiusura, rilassati nei confronti del virus. Magari, nel frattempo, le cose sono cambiate, però, chissà.    
Cosa fare in attesa di incontrarci nuovamente? Alcune cose ve le ho scritte nel Registro Elettronico (spero le abbiate viste). Per voi, ragazzi di prima, non ho assegnato nulla, poiché siamo molto avanti con il programma (un bel "Bravi" ve lo meritate, per avermi seguita in questo modo); magari leggete un buon libro, che potrebbe essere quello di cui abbiamo parlato in classe, ricordate? "Mio fratello rincorre i dinosauri". Ma va bene anche un libro qualsiasi (non mandate in giro i vostri genitori a cercalo, che li immagino già indaffarati a occuparsi - e preoccuparsi - di voi, per affidarvi alle cure dei nonni). Voi, ragazzi di seconda e terza, continuate a seguire il R.E., poiché potreste trovare a breve nuove indicazioni.   
Se avete voglia, bisogno, desiderio di contattarmi, anche solo per raccontarmi come state o come state trascorrendo queste vostre giornate un po' particolari, avete il mio indirizzo di posta elettronica.   
Vi abbraccio tutti (ma proprio tutti) e aspettiamo insieme che la situazione si sblocchi e che la scuola torni a vivere delle nostre storie quotidiane, dei vostri schiamazzi, dello scalpiccio dei vostri piedi, perché vuota è triste anche da vedere.  
      



Vi aspetto.

A presto

La vostra prof