sabato 19 agosto 2017

VIAGGIO IN POLONIA



CRACOVIA, AUSCHWITZ, BIRKENAU, GROTTE DI SALE, VARSAVIA

"Non posso morire senza avere visitato Auschwitz". Me lo sono detta un sacco di volte. E così, ecco, quest'anno, vacanza alternativa: viaggio in Polonia. Cinque giorni soltanto, il necessario per visitare Cracovia e Varsavia (vuoi non vedere la capitale, già che ci sei?).        
Il viaggio inizia con una sorpresa, che non sarà l'unica. Al momento dell'imbarco a Malpensa, vedo una coppia davanti a me. Lui mi ricorda molto qualcuno. Lo guardo con insistenza e mi domando se sia proprio chi immagino. "Ma no", mi dico, "figurati! Non è possibile". Lui non si è accorto di me. Eppure mi sembra ... io glielo chiedo, al massimo mi dice che mi sono sbagliata. E invece è proprio lui: dopo oltre quarant'anni, ritrovo Maurizio, amico della preadolescenza, perso di vista per tutto questo tempo. Scopro così che lui e la moglie faranno lo stesso nostro percorso: Cracovia, Auschwitz, Birkenau, Grotte di sale (noi in più andremo anche a Varsavia). Se avessimo pianificato a tavolino il viaggio, non avremmo potuto fare di meglio.
Partiti da Varese con un caldo infernale (è il caso di dirlo, dal momento che sono i giorni di Lucifero), atterriamo in una Cracovia fredda e piovigginosa (fortunatamente ho portato due maglioni di lana che mi faranno compagnia ogni giorno, tranne a Varsavia, dove la temperatura è decisamente diversa). Ecco, una delle cose più particolari, dal punto di vista climatico, che noto subito è l'escursione termica di questo posto: si passa dai dodici gradi ai trenta nell'arco della stessa giornata. Basta che esca il sole e si schiatta dal caldo, si rannuvola e tira un'aria fredda da far rabbrividire. 
       
Cracovia  
E' splendida, un vero gioiellino, molto turistica, molto pulita e molto vissuta. Una piazza immensa, palazzi colorati con tinte pastello, tetti che ricordano Parigi e tante, tantissime finestre con tende tutte uguali, rigorosamente bianche, che sembrano arredare le facciate degli edifici. Cavalli con pennacchi colorati trainano bianche carrozze d'epoca.
C'è musica per le strade: qualcuno suona il violoncello, qualcun altro la fisarmonica, qualcuno il violino. C'è anche chi canta. Ci imbattiamo in una voce da pelle d'oca: una donna esegue un brano in lirica. Qualcuno canta canzoni popolari, soprattutto lungo la riva del fiume, la Vistola (Wisła, come si legge sui cartelli). La camminata che costeggia il fiume riporta sull'asfalto le impronte delle mani di personaggi famosi, impresse in targhe di bronzo. Fotografo quella di Roman Polanski.        
Un drago enorme (forse di bronzo), accerchiato da bambini e genitori che scattano foto, sputa fiamme vere dalla bocca. Sull'acqua galleggiano imbarcazioni grandi e piccole, alcune attraccate, col ponte adibito a ristorante. C'è un odore particolare nell'aria, odore di cibo molto speziato.   
Mi stupisco di vedere come anche qui ci siano ponti "aggrediti" da lucchetti con incisi o scritti sopra a pennarello nomi di innamorati (colpa di Moccia o siamo noi ad averli copiati?).     


scrivania di Schindler

La fabbrica di Schindler.  
Ho visto il film almeno venti volte (lo propongo spesso alle mie terze), ma non riconosco l'edificio: è stato trasformato in un museo, uno dei più belli che abbia mai visto, ricco di documenti storici importanti di ogni tipo: abiti, divise, fotografie, armi, cassapanche, carrozzine, persino un tram. L'ufficio di Schindler riporta la sua scrivania con alcune fotografie personali, una grande carta geografica sulla parete posteriore e, di fronte, un'infinità di pentole conservate in una teca di vetro: sono le pentole realizzate dai suoi operai (ne producevano più del necessario, perché quello era per loro un rifugio, non solo un posto di lavoro).  

  
Attraversiamo quella che è la ricostruzione del ghetto: ci sono stanze che riproducono scene di vita quotidiana nelle case degli ebrei.       
Un lungo corridoio, con documenti fotografici e manifesti dell'epoca alle pareti, addobbato con drappi rossi che riportano impressa la svastica, simbolo del nazismo imperante, ci introduce nella stanza dei video: filmati di guerra, l'invasione della Polonia. Hitler si agita sullo schermo, gesticolando freneticamente, impegnato in un discorso alla nazione. Si ode rumore di bombe in sottofondo. Un corridoio stretto e buio ci porta alle case dove gli ebrei trepidavano di paura, nell'attesa che qualcosa di terribile accadesse. Ci sono le cassette della posta sul muro, con i loro nomi e le porte sbarrate, dalle quali escono sommesse delle voci che bisbigliano. Si respira la loro angoscia.
Nell'ultima parte del percorso, uno scorcio dei campi, il filo spinato, la ghiaia.



Auschwitz/Birkenau.       
Il sole fa capolino tra le nubi, ma l'aria è ancora fresca. Ci accoglie il direttore dell'organizzazione SOS Travel, Michele Andreola. Oggi ci farà lui da guida, perché ci sono alcune persone di Varese e ci tiene particolarmente. Scopro subito perché, quando lo vedo. Michele! Altra conoscenza di quando eravamo ragazzi. Abitavamo nella stessa via. Non ci posso credere! A guardarlo bene, non è cambiato. Anche lui mi guarda. Mi si avvicina e mi dice: <<Ma tu sei quella che penso?>>. Sorrido. <<Sì, sono io>>. E' un'emozione rivederlo. Siamo sempre noi, soltanto invecchiati. Mi dice che ormai vive a Cracovia da diversi anni.     
Michele è una guida eccezionale: dosa le parole, cercando di essere incisivo, di far penetrare il messaggio, ma al contempo è delicato, molto rispettoso della sensibilità del gruppo che gli si affida in questa visita. Ci sono anche bambini e ragazzi ed è attento a non turbarli troppo, mentre spiega l'orrore del campo. Tuttavia è diretto: con poche parole, ma soprattutto con molti sguardi incisivi, eloquenti più di qualsiasi discorso, coinvolge le nostre coscienze, catturando l'attenzione. Abbiamo tutti gli occhi puntati su di lui, mentre parla. Ci sa fare, specialmente con i ragazzi: spiega con fermezza, lancia la riflessione, poi sdrammatizza con uno sguardo e una battuta destinata ai più piccoli del gruppo. Li tiene agganciati, facendo continui riferimenti alla loro realtà di giovanissimi. La visita è un'altalena di emozioni. Michele non è mai retorico, mai drammatico, ma mira dritto a scuotere le coscienze. Ci porta all'interno di numerosi blocchi: vediamo i letti (se di letti si può parlare) nei quali dormivano ammassati anche in otto e più, letti a castello triplo. Ci dice che nessuno poteva dirsi privilegiato: chi stava sopra, soffocava dal caldo in estate e moriva di freddo in inverno, chi stava sotto, giaceva in mezzo al fango, chi in mezzo, non era messo meglio: i liquami di chi giaceva sopra, colavano sulle persone degli altri livelli, portando infezioni, pidocchi, malattie.


"letto"


Passiamo davanti al blocco delle torture, dove medici come Menghele facevano esperimenti sui gemelli e sulle donne per renderle sterili (lo scopo era quello di estinguere la razza). Qui Michele, dopo averci accennato di queste atrocità, ci rivolge una domanda: <<Secondo voi, Menghele era un medico o era un pazzo?>>. Alcuni rispondono che era un pazzo. <<No, invece, non lo era>>, dice guardandoci in faccia a uno a uno. <<Non lo era affatto. E allora chiediamoci: che cosa può aver mai spinto un medico, legato al giuramento di Ippocrate, ad agire in questo modo, se non era pazzo? Chiediamocelo>>. Mi piace il suo modo di interrogarci: ci spinge a riflettere. Non elargisce verità: ci sta facendo una lezione sulla vita, sul senso delle azioni umane. Lo vedrei bene come professore di storia in una scuola: sarebbe molto amato dagli alunni. I ragazzini del gruppo lo seguono con attenzione, con rispetto. Il silenzio regna attorno a tutti noi.      
Ed ecco che arriviamo alla parte della visita più "forte": quella dei reperti umani. Michele invita a non scattare fotografie, perché questo luogo ha valore "sacro", come un cimitero, anche se tutto qui lo è. Mi tremano le gambe, il cuore accelera paurosamente i battiti e un nodo mi stringe la gola. Non voglio piangere. Cerco di trattenermi. Ma tutti quei capelli, quelle trecce ammassate le une sulle altre... Resti di donne passate di qui dal 1939 in poi.
Scarpe. Milioni di scarpe di tutte le misure: da donna, da uomo, da bambina, da bambino, da neonato. Valigie con il nome scritto sopra. Michele ci spiega che il nome serviva per riconoscere la propria valigia. C'era speranza negli ebrei. Un documento fotografico ritrae una donna ebrea che sorride appena scesa dal treno (la prima a destra):

"Ci portano in un  campo di lavoro, ci portano a lavorare, poi, quando la guerra sarà finita, torneremo alle nostre vite di sempre", pare dire il suo sguardo. C'è fiducia, c'è speranza negli occhi dei deportati. Non sanno che stanno andando a morire. Il grande inganno. L'attaccamento alla vita che porta a credere che, "Sì, staremo male per un po', ma poi la vita tornerà a sorridere". L'illusione, la bugia, la menzogna raccontata a se stessi, per sopravvivere all'inferno. E la speranza c'era. "Mi porto le pentole da casa, mi porto la crema Nivea per il corpo, mi porto l'apriscatole, mi porto la spazzola, mi porto l'occorrente per questa lunga..."... Che cosa? Vacanza forzata?      

Ci spostiamo in autobus fino a Birkenau.             
Qui le rotaie del treno arrivano fino all'interno del campo di lavori forzati.



Birkenau


E' mezzo distrutto, perché i tedeschi, alla fine della guerra, hanno cercato di insabbiare le prove delle atrocità che stavano compiendo.  
Michele ci racconta alcuni episodi, come quello della bambina che arriva al campo col papà e il fratellino. Padre e fratello stanchi. C'era la possibilità di prendere l'autobus oppure di procedere a piedi. Il campo è immenso. Non sono rimasti molti posti sul mezzo. "Andate voi, io vado a piedi". La bambina compie un gesto che crede di generosità nei confronti dei familiari. Sarà l'unica a sopravvivere. L'autobus conduceva i prigionieri direttamente alle camere a gas. All'arrivo, le donne venivano divise dagli uomini. Un medico stabiliva chi doveva vivere per lavorare (lo scopo del campo era costruire "abitazioni" per accogliere tutti i futuri deportati: si doveva fare spazio ai tedeschi nelle città della Polonia): giovani e forti. Vecchi, bambini e malati dovevano morire subito.
forno Auschwitz
Una giovane donna in forze viene inviata alla camera a gas, perché ha in braccio un bimbo di pochi mesi: come separare una madre da un  figlio così piccolo? Ma non era bontà né pietà quella dei tedeschi, ci spiega Michele. Erano praticità, utilità, interesse. Il Terzo Reich doveva durare Mille Anni. Il campo sarebbe servito a fare fuori tutti coloro che non facevano parte della razza ariana pura. I deportati lavoravano per eliminare i propri simili e le minoranze, ma non lo sapevano. Michele ci invita a osservare quanto il campo sia sterminato. <<Secondo voi, quanta gente avrebbe potuto accogliere?>>.
Ogni mattina l'appello. A volte durava ore, ore che i prigionieri trascorrevano sotto l'acqua, al freddo o sotto un sole cocente. Lo sterminio iniziava da lì. La guardia delle SS che doveva fare l'appello se ne stava anche venti ore dentro alla torretta, al riparo dalle intemperie, prima di chiamare i prigionieri che dovevano stare in fila in piedi, a volte nudi, ad aspettare. Tanti crollavano: auto-eliminazione. Una fatica in meno per i nazisti.     
Orari di lavoro massacranti, nessuna pausa consentita. Una bambina uccisa per aver raccolto una mela. Bagni in comune, tutti in fila. Si potevano espletare le proprie necessità fisiologiche due volte al giorno, secondo orari prestabiliti. Non ci si poteva lavare. La colazione consisteva in una brodaglia sporca che doveva essere caffè. Spesso le donne si lavavano con quella.  
All'interno dei campi nasceva la resistenza. Alcuni progettavano la fuga, ma ognuno era responsabile di tutti gli altri. Se all'appello mancava qualcuno, pagava l'intero blocco. Pochissimi sono riusciti a fuggire da quell'orrore. 
Delle camere a gas restano solo macerie qui a Birkenau (mentre ad Auschwitz sono presenti ancora i forni e i camini).
camino Auschwitz
I tedeschi hanno distrutto tutto, prima dell'arrivo dei russi.
Michele ci accompagna fino ai monumenti dedicati ai caduti, poi ci dirigiamo verso l'uscita. Qui, davanti al cancello d'ingresso, ci racconta la storia di una madre separata dal proprio figlio. Il bimbo faceva di tutto per riuscire a vederla ogni giorno, al di qua del filo spinato. Così si salutavano e sapevano di stare bene o almeno di essere vivi. Per il giorno del compleanno del figlio, la madre gli confeziona un piccolo regalo, ma al mattino il bimbo non si fa vedere. La madre, agitata, comincia a chiedere e viene a sapere che il bambino ha la febbre, è malato, il che significa una sola cosa: camera a gas. La donna fa di tutto per vederlo un'ultima volta. Il bimbo la raggiunge al luogo dell'appuntamento, non visti dalle guardie. Lei lo chiama e lo invita ad avvicinarsi, poi lo tira a sé, in un abbraccio contro il filo spinato, sotto tensione a 400 Volt, cercando e ottenendo insieme la morte.       
Abbiamo tutti gli occhi lucidi, nessuno parla, nessuno ha mai parlato durante tutta la visita.        
Michele ci guarda e ci lascia con una domanda: <<Che cosa possiamo fare? Che cosa può fare ognuno di noi, al di là della commozione di oggi, di qualche lacrima sfuggita, per evitare che questo si ripeta un  giorno? Non rispondete a me: chiedetelo a voi stessi e cercate in voi la risposta>>.




Grotte di sale. 
Terza tappa: un'ex miniera.
Caldo. Ma stiamo per scendere a 135 metri sotto terra. Una grotta interamente di sale, dove tutto, dalle statue alla cattedrale, ai lampadari, al pavimento, al bar è fatto di sale, una grande fonte di ricchezza dell'antichità, tanto che ancora oggi si dice "pagare un conto salato", "E' caro come il sale", ecc...


cattedrale di sale a 135 metri sotto terra
(pavimento e pareti in sale, muro in sale, lampadari in sale)


Varsavia. 
Giornata caldissima.   
Scendiamo dal treno e la prima impressione è quella di essere arrivati a Milano, Porta Garibaldi. Grattacieli, strutture super moderne, l'insegna dell'Hard Rock Cafe gigantesca: una chitarra rossa contro il cielo azzurrissimo della capitale. Spettacolare il Palazzo della Cultura che ci accoglie a due passi dalla stazione ferroviaria.  
Palazzo della Cultura
 
Varsavia è immensa: 1.735.000 abitanti. E' una tipica città capitale. Niente a che vedere con Cracovia, finché non si entra nel centro storico. Allora si ritrovano lo stesso stile architettonico, le facciate color pastello, i tetti grigi a spiovente, le piazze, i monumenti, i locali tipici. Anche qui, musica e profumi di cibi speziati per le vie.   
Vaghiamo ore in cerca del ghetto da visitare. Internet ci dice che non è facile trovarlo e non possiamo fare altro che concordare. Rimane veramente poco: un muro con dei manifesti e una sinagoga.   
Sfiliamo davanti al Palazzo Reale, ci dirigiamo verso la zona delle vecchie mura. La storia è tutta racchiusa qui. Fuori è modernità, quella che per noi appare come normalità.

Palazzo reale


Prima di ripartire e tornare in Italia, facciamo nuovamente tappa a Cracovia. Nuovo giro per la città. Andiamo in cerca della casa in cui Karol Wojtyla ha vissuto dal 1951 al 1967. 
Un uomo sta suonando il violino, un brano che fa venire i brividi. E' tratto da qualche film che ho visto, ma non riesco a ricordare quale. Le corde dello strumento piangono, suscitando forti emozioni.


casa di papa Giovanni Paolo II


Atterrati a Malpensa, saliamo in auto e ci dirigiamo verso casa. Radio accesa in sottofondo. Attentato a Barcellona. Siamo sgomenti. Alziamo il volume poi cerchiamo notizie in Internet sul cellulare. E la domanda di Michele ritorna: che cosa possiamo fare? Un'altra storia, è vero, un'altra realtà, ma sempre la brutalità e l'odio dell'uomo verso il proprio simile.        
Il mio amico Cesco in FB ha scritto: credo che le guerre avranno fine solo con la fine. Credo abbia ragione.