venerdì 19 ottobre 2018

CONCERTO DI MORTE, Fratelli Frilli Editori

Elena Macchi è tornata!

Dal 25 Ottobre "Concerto di morte", Laura Veroni, Fratelli Frilli Editori, nelle migliori librerie.


La copertina

Guarda il book trailer


Un momento della presentazione



martedì 18 settembre 2018

Arrivederci, zio Aldo...


17/09/2018

In memoria di zio Aldo



Oggi zio Aldo ci ha lasciati. Ultimo dei fratelli Veroni, con lui se ne va non solo un affetto personale, ma anche una parte di Varese, per tutto quello che ha rappresentato per questa città. 
Quale varesino non lo conosceva, infatti? Generazioni di lettori e di studenti hanno frequentato quella che è stata la Libreria dei Fratelli Veroni.
Quante volte mi sono sentita chiedere dalle persone: <<Ma hai qualcosa a che vedere con la libreria?>>.  
E la mia risposta, sempre la stessa: <<Sì, sono la figlia di uno dei proprietari>>.    
<<Ah, la figlia del signor Aldo!>>.  
<<No, di Edmondo. Aldo è mio zio>>.  
Ah, che gran bella persona il signor Aldo! Aldo, il più conosciuto dei tre fratelli, nonché il più giovane, quello che era sempre a contatto con il pubblico, quello che potevi trovare dietro al bancone, all'ingresso della libreria, pronto a sfoderare il suo più cordiale sorriso di benvenuto ai clienti, a dispensare consigli sui libri, sulle ultime novità. Aldo, tanto stimato dai suoi dipendenti e dalla sua Varese. Lo stesso Aldo che ha lottato per la libreria, che ci è rimasto attaccato fino alla fine, finché ha potuto, con la morte nel cuore, nel vedere il frutto di una vita di sogni, speranze e sacrifici condivisi con i fratelli, venir meno con l'inevitabile chiusura. Giù la saracinesca, via l'insegna: la Fratelli Veroni aveva chiuso i battenti. 
E da allora si poteva vedere quotidianamente il signor Aldo passeggiare per le vie del centro, sfilare davanti alle vetrine di quelli che erano stati i locali dove era invecchiato insieme ai suoi fratelli, con l'amarezza dipinta in volto e chissà quale spina conficcata nel cuore, dirigersi verso la Biblioteca Comunale a leggere il giornale, avvolto, durante gli inverni freddi, nel caldo paltò di loden verde, con le mani fasciate nei guanti di pelle nera e i capelli ingrigiti che incorniciavano un volto vissuto, sempre più sofferente per quel dispiacere che non lo aveva più abbandonato. Eppure non smetteva mai di dispensare saluti e sorrisi a quelli che erano stati i suoi vecchi e affezionati clienti.
E poi... la Spagna. I fratelli ormai non c'erano più, la figlia, l'unica, si era trasferita e, allora, che cosa poteva mai trattenerlo ancora qui? E così, addio Varese, con una punta di malinconia, perché qui lasciava comunque le sue radici, qui i ricordi della giovinezza, qui i momenti spensierati, qui le fatiche, qui i ricordi.   
Ma il signor Aldo Veroni per me non è stato solo questo. Per me è stato molto di più. E' stato lo zio della mia infanzia, il fratello giovane del babbo, il fidanzato della zia Milena. Lo ricordo ancora molto giovane, prima del matrimonio. Aldo era lo zio che viveva in casa con nonna Ines, quello che vedevo quasi tutti i sabato sera, quando i miei genitori uscivano per andare a cena e al cinema o a ballare e mi lasciavano a casa della nonna. Era lo zio con cui ridere e scherzare, con cui giocare, nell'attesa che arrivasse la domenica e con quella i miei genitori che tornavano a prendermi. E zio Aldo è stato per me anche un secondo padre, dopo la morte del mio. Un padre che mi ha seguita silenzioso, ma presente, a distanza. Negli ultimi tempi, poi, da quando ho cominciato a pubblicare romanzi, è stato anche il mio fan più accanito. Sorrido commossa, pensando che ha tradotto in spagnolo il mio "Thanatos", il libro che ha segnato l'inizio, diciamo pure serio, della scrittura. Ogni volta che usciva una novità, gliela spedivo e lui attendeva con ansia di ricevere il pacchetto, per leggere le storie che inventavo, per poi mandarmi i suoi commenti. Aveva letto anche il romanzetto adolescenziale che avevo scritto a diciotto anni, dispensandomi consigli. Mi aveva incoraggiata a continuare, a non arrendermi. Era orgoglioso dei miei successi e mi diceva sempre che lo sarebbe stato anche mio padre. Negli ultimi tempi, quando io ho avuto un problema di salute, mi è stato molto vicino, pur fisicamente lontano. Ci scrivevamo spesso. Conservo i suoi messaggi gelosamente, specialmente uno, in cui mi esortava a non mollare, a stringere i denti e reagire, a lottare. Parole di conforto che avrei tanto voluto poter dire anche io a lui in questi giorni. Invece non ne ho avuto il tempo. Un ultimo Whatsapp, prima di ricevere la notizia che se n'era andato: TI VOGLIO TANTO BENE. E un cuore rosso che pulsa e che continuerà a pulsare.   
Sono sicura che Aldo Veroni non mancherà soltanto a me. La sua scomparsa lascerà un vuoto nel cuore di molte persone, di tutte quelle che gli hanno voluto bene e che sono state tante.  
Ho nel cuore la certezza di farmi portavoce dei sentimenti d'affetto di tutte quelle persone, in primis dei familiari, poi, di tutti gli ex dipendenti della ex Libreria, quella con la L maiuscola, che tanto ha rappresentato per la nostra Varese, infine di tutte le persone che lo hanno conosciuto. 
Arrivederci, zio <3.


lunedì 3 settembre 2018

IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO...


Io speriamo che me la cavo, come tutti sanno, è un libro che risale al 1990, scritto dal maestro elementare Marcello D'Orta nella forma di una raccolta di sessanta temi svolti da ragazzi di una scuola elementare della città di Arzano, Napoli.   
Ma in questo caso specifico, è un'espressione che oggi ho fatto mia, appena suonata la sveglia.    
Primo giorno di scuola per tutti i docenti della secondaria di primo di grado e il mio primo pensiero, dopo ben sei mesi di assenza dal lavoro, è stato proprio questo: ce la farò? Ansia e preoccupazione, alle spalle una notte praticamente insonne. Come resistere seduta ore durante il collegio docenti? Come resistere durante l'anno, in classe, con alunni super agitati da gestire? Sarò in grado di non ascoltare il dolore che mi tormenta ormai da mesi, per dare spazio al mio ruolo di insegnante, di educatrice, di collega? Saprò essere di nuovo quella che ero: attiva, dinamica, bionica (come mi definiva qualcuno), infaticabile, affidabile? Saprò esserlo? Ed è con questi pensieri che stamattina ho varcato il cancello della Vidoletti, zaino in spalla (già troppo pesante, seppur vuoto di libri, ma pieno di altre cose), con una certa trepidazione. 
(immagine da Internet)

Entrare nell'edificio mi ha fatta subito sentire a casa. E' stata una sensazione piacevole, mi è parso di essermi riappropriata di una parte della mia vita che mi era stata rubata da uno stupido (stupido?) incidente di percorso. Essere avvolta di nuovo dall'affetto dei colleghi che ormai, dopo anni (questo è il mio nono qui), rappresentano per me una seconda famiglia, mi ha infuso un senso di benessere, di appartenenza. Ecco, quello che mi è mancato in tutti questi lunghi mesi: sentirmi appartenere. Il profumo familiare della gomma dei pavimenti, il colore giallo delle pareti all'ingresso, il bancone del personale collaboratore, la macchinetta delle bevande calde che mi ha ricordato gli inverni passati, con le ore buche dedicate a bere tè bollente per scaldarmi, persino i servizi destinati alle docenti, quello con lo scarico difettoso... tutte queste cose mi hanno fatta sentire bene. 
Anche la voce del dirigente, che elencava i punti all'ordine del giorno, mi ha infuso benessere, un completo, totale senso di familiarità e appartenenza. 

Dolore. Dolore continuo in sottofondo. Il cuscino anatomico appoggiato dietro la schiena è servito ben poco. Devo farcela, voglio farcela, voglio tornare alla vita di prima, quella di sempre, voglio tornare a essere quella che ero. Ho già perso troppo tempo, ho buttato via mesi della mia vita. Li voglio riprendere tutti!        
Stamattina, un messaggio di augurio di buon anno scolastico dal mio ex collega Carlo, ormai in pensione, mi ha scaldato il cuore e mi ha profondamente commossa. Sono facile alle lacrime da un po' di tempo, lo ammetto, ma le ho controllate. Le parole di affetto e solidarietà da parte di tutti i colleghi, la loro disponibilità ad aiutarmi, Giusy, che questa mattina appena sveglia, mi ha scritto CONTA SU DI ME PER QUALUNQUE COSA. IO NON TI MOLLO.  Margherita che mi ha portato il borsone pesante fino alla macchina, Nico che mi ha detto: <<Ti prendo in braccio per fare le scale, se hai bisogno>>... E il preside: <<Ti farò avere delle sedie imbottite nelle tue classi, non preoccuparti>>...     
Come non sentirsi pieni di gioia e gratitudine, quando l'inizio è questo? E come non rispondere al dubbio "Io speriamo che me la cavo" in questo modo: CERTO, IO ME LA CAVERO'.

Grazie <3



giovedì 26 luglio 2018

IL FANTASMA DI GIADA

Da oggi in distribuzione in tutte le migliori librerie, il Frillino "IL FANTASMA DI GIADA", il mio primo giallo per ragazzi. Dedicato ai miei alunni di ieri, di oggi e di domani. 


Trama: Giada, Francesca e Beppe sono tre amici che frequentano la stessa scuola media. Beppe è molto studioso, ma anche molto impacciato, soprattutto con le ragazze; Francesca, esuberante e pragmatica, è un po’ l’anima del gruppo. Giada, bella e tendenzialmente sognatrice, ha segretamente una cotta per Marco, un suo compagno. La presenza in casa di Giada di un tavolino proibito, un tempo usato per le sedute spiritiche, porterà nella quotidianità dei ragazzi una presenza terrificante, lo spirito di Matteo Bianchi, un loro compagno di classe, morto in un incidente stradale un anno prima. Il ritorno di Matteo Bianchi darà il via a una serie di eventi inspiegabili, che trascineranno i tre ragazzi in un'avventura al limite del paranormale. Ma sarà proprio vero che i fantasmi esistono?



lunedì 16 luglio 2018

NEVICAVA. NEVICAVA FORTE...


Nevicava. Nevicava forte.   
Era la mattina del 5 marzo 2018 e Lalla si stava recando a Pisa per ritirare il premio Europa. Si era classificata prima all'illustre concorso letterario con il racconto "Tempo scaduto".  
Non si vedeva a un palmo dal naso e l'eccitazione della vittoria si mescolava alla tensione di quel viaggio che aveva un che di surreale. Gli occhi, incollati al parabrezza, si concentravano per scorgere eventuali sbandamenti delle altre vetture. I fiocchi cadevano con insistenza, a raffica, e il tergicristallo faticava a spazzarli via. Ogni tanto si scorgeva una luce arancione che lampeggiava: gli spazzaneve al lavoro. Tabelloni violentati dalla furia della bufera bianca invitavano i temerari viaggiatori a tornare indietro. La radio emanava bollettini allarmanti: non mettetevi in viaggio.  
Impossibile, ormai, fermarsi e cambiare direzione. 
La Cisa era completamente imbiancata. Imboccare quel tratto di autostrada le diede l'impressione di essere proiettata in una scena del film Shining. Solo che lì non si vedeva nessun hotel, né la fila di alberi, soltanto una stazione di servizio sommersa da una coltre di neve e i soliti cartelli di avviso ai naviganti: fermatevi appena potete. 


Cinque ore inchiodata al sedile della macchina, nemmeno una sosta, per timore di non arrivare a destinazione. Quando scese e richiuse la portiera, avvertì urgente il bisogno di allungare la schiena. Si massaggiò la fascia lombare. Il programma era: ritirare il premio, presenziare all'aperitivo in onore dei partecipanti, ringraziare, salutare e rimettersi in viaggio. Ma la radio continuava a diffondere notizie allarmanti circa le condizioni del tempo. Meglio pernottare. Sarebbe rientrata l'indomani, dopo una notte di riposo, che riposo non fu.    
Stanza al primo piano di un albergo centrale. Niente ascensore per un'atleta come lei, abituata al movimento, salutista fino in fondo. Le scale facevano solo bene: alla circolazione, al fiato, ai muscoli. Eppure, già ai primi gradini, una sensazione fastidiosa alla schiena, ma, soprattutto, alla gamba sinistra che pareva rifiutarsi di affrontare la salita. Leggero intorpidimento alla coscia nella parte anteriore e piccole fitte all'inguine. Sicuramente un malessere passeggero. Lalla non vi diede peso e continuò a salire i gradini.


Notte in bianco, a rotolarsi nel letto, in cerca di sollievo da quell'insistente mal di schiena. E quel maledetto tombino, situato proprio sotto la finestra della camera. Al passaggio di ogni vettura, produceva un rumore simile a uno schianto. Faceva un caldo infernale nella stanza, il riscaldamento era eccessivo per l'ambiente angusto e non c'era modo di regolarlo. Aveva lasciato aperto uno spiraglio, ma quel tombino le dava sui nervi, accentuando la sensazione di dolore e impedendole di dormire.
Il mattino seguente, di buon'ora, di nuovo in viaggio verso casa, con il suo astrolabio (il premio come prima classificata), l'orchidea e il pacchetto dei libri ricevuti in omaggio il pomeriggio precedente.



7 marzo.   
Un movimento stupido, banale, abituale, normale quale quello di chinarsi a sistemare lo stivale, scivolato lungo la gamba, e, nel rimettersi in posizione eretta, un dolore acuto come una coltellata piantata di sorpresa nella schiena, proprio lì, a sinistra, poco sopra il gluteo. A Lalla mancò il fiato per alcuni secondi. Cos'era stata quella fitta terribile? Si trascinò a fatica fino al parcheggio dove aveva lasciato l'auto, salì e mise in moto, sudando freddo. Doveva raggiungere casa al più presto. Lì si sarebbe sdraiata e tutto sarebbe passato, rientrato. Il giorno seguente la attendevano i suoi ragazzi a scuola e nel pomeriggio la penultima lezione del corso di Didattica Immersiva alla quale non poteva mancare.  
Prese l'ascensore, guadagnò l'ingresso e si trascinò fino al letto. Un antidolorifico, ecco cosa le serviva. Solo un antidolorifico e tutto sarebbe tornato come prima.


8 marzo, ore 7:55.     
Si trascinava a fatica sulle scale che conducevano al piano superiore dove erano ubicate le classi, aggrappandosi al corrimano.      
Quando, zoppicando vistosamente, fece il proprio ingresso in 2^E, i ragazzi la guardarono con aria interrogativa. Invece del solito clamore, che precedeva il suono della campanella di inizio lezioni, c'era un brusio concitato. A un tratto una voce si levò sopra le altre: <<Cosa le è successo, prof?>>.  
Lalla fece un gesto con la mano come a dire niente di grave. <<Semplice sciatalgia>>. Aveva già sofferto di infiammazione al nervo sciatico diversi anni addietro. Tempo quindici giorni, antiinfiammatori, al massimo iniezioni di Voltaren e Muscoril e tutto sarebbe rientrato.  
Ore 10:55. Non ne poteva più dal dolore. Impossibile rimanere seduta. Si alzò e assunse una posizione poco elegante, piegandosi a novanta gradi sulla cattedra e tirando i muscoli della schiena. Le fitte erano sempre più forti, il dolore al gluteo simile al morso continuo di un cane rabbioso. Ogni passo, una coltellata alla schiena. Lalla decise di andare dal medico. Affidò la classe alla collega di sostegno e andò dal Dirigente.       
Dentro di sé pensava che il riposo pomeridiano le avrebbe fatto bene e che l'indomani sarebbe tornata a scuola. Già nel pomeriggio, comunque, si sarebbe presentata, se pur zoppicante e dolorante, al corso di aggiornamento. Ci andò con una fascia elastica in vita che conteneva un cerotto a rilascio di calore. Tre ore seduta, sudando freddo, nonostante il riscaldamento a palla dell'aula informatica. 
<<Ci vediamo domani a scuola>>, salutò le colleghe all'uscita. Invece a scuola non tornò. Una settimana di malattia poteva bastare a rimetterla in sesto, ne era certa. Forza e coraggio, stringere i denti, che cosa poteva mai essere una sciatalgia? I suoi alunni avevano bisogno di lei e lei di loro, il progetto del Vidoleggiamo, quello di cui era responsabile da diversi anni, che prevedeva l'esposizione dei lavori dell'intero Istituto attorno a un tema comune scelto a inizio anno, la aspettava, con gli ospiti da contattare, le ultime cose da organizzare, la gara di poesia, la commissione di valutazione dei migliori elaborati, l'organizzazione della festa finale. E poi c'era l'ultimo romanzo al quale stava lavorando, quello praticamente finito, ma da sistemare. E gli appunti del corso della Didattica Immersiva da mettere a posto, l'esercitazione da fare, realizzando il tour virtuale, una figata pazzesca, per lei patita di novità e di tecnologia informatica. Aveva dato il la alle colleghe con l'idea del tour virtuale della scuola, si era schierata in prima linea. E poi c'erano ancora due concorsi letterari ai quali intendeva partecipare: quello di fantascienza e l'altro, quello fanta-horror, entrambe due prime esperienze. Era carica di energie e di voglia di fare. L'attendevano pure le prove comuni delle proprie classi, la novità dell'Invalsi anticipata, le innovazioni scolastiche inerenti la valutazione e lei, come capo gruppo di Lettere, non poteva certo mancare. Le piaceva darsi da fare, rendersi utile, collaborare con i colleghi e col Dirigente. A volte, è vero, si sentiva stanca e avvertiva lo stress di quella vita così piena e sempre di corsa, ma poi c'era la soddisfazione di raccogliere quanto seminato e non era poco, anzi! E la palestra? Dove la posizionava quella? Franco l'istruttore, gli amici, la carica che le davano gli allenamenti intensi al limite delle energie e quella doccia finale, rigeneratrice. Ogni volta che usciva da un allenamento si sentiva come nuova, carica come non mai, pronta ad affrontare qualunque cosa. Una vita piena, non c'era che dire. Piena di attività, piena di relazioni, piena di impegni, piena pienissima di tutto, mai uno spazio vuoto dove il pensiero potesse vagare libero per i fatti propri. Una vita dedicata al FARE.


Quella notte si svegliò che erano quasi le tre. Era dolore quello che stava sentendo alla gamba sinistra? Annaspò con le mani sul comodino in cerca della piletta notturna che utilizzava per non disturbare il marito.  La trovò e accese la piccola luce. Si sentiva strana, la sua gamba era strana. Ma era sua? Intorpidita, informicolata. Avvertiva la anomala sensazione che quell'arto non le appartenesse. Provò a scendere dal letto, ma quello pareva rifiutarsi di rispondere al comando del cervello e mettersi in moto. Era come avere un laccio emostatico stretto intorno all'inguine, che comprimeva l'intera gamba e ne bloccava la circolazione. Cominciò a frizionarla energicamente, come si fa con un braccio "addormentato". Fregò a lungo senza beneficio. Si alzò, appoggiandosi con una mano al muro e trascinandosi fino in cucina. Bevve un po' d'acqua poi raggiunse faticosamente il bagno. Pipì di routine. Avvertì dolore all'inguine. Guadagnò la posizione eretta con fatica e tornò a letto con una sottile ansia che si impossessava di lei. Aveva timore di addormentarsi senza la gamba. Già, perché quella era la nuova sensazione: che quella parte di sé la stesse abbandonando.      
Quando si svegliò, la gamba era intorpidita, ma l'effetto laccio emostatico l'aveva lasciata. Non così il dolore. 
     
Dopo alcuni giorni di iniezioni e pastiglie senza beneficio alcuno, chiamò nuovamente il medico di base: forse era il caso di fare accertamenti.   
La risonanza magnetica mise in evidenza una protusione discale in sede intraforaminale L4 L5. Non le parve niente di che. Nemmeno il medico parve preoccuparsi più di tanto, se non che il dolore nei giorni successivi, nonostante tutte le cure, pareva peggiorare, così come lo stato della gamba che, a tratti, diveniva insensibile, ghiacciata, di gomma. Prese una matita appuntita e provò a conficcarla nel muscolo tibiale, quasi all'altezza della caviglia. Era come pungere un corpo estraneo.     
Urgeva visita da neurochirurgo, le disse il medico di base.      

Il Dottor B la ricevette direttamente in ospedale. Ascoltò attentamente il suo racconto poi esaminò il dischetto della risonanza.     
<<Si tratta di un'ernia>>, sentenziò spostando lo sguardo dal monitor a lei che gli sedeva di fronte. <<Si è infilata in una brutta posizione e preme sulla radice dello sciatico>>.       
Quindi?     
<<Bisogna intervenire chirurgicamente>>.   
Lalla quasi sorrise. <<No, guardi, non vorrei proprio>>, disse incredula. <<Non che io abbia timore di un'operazione>>. Ne aveva fatte diverse in passato e davvero non le faceva paura finire sotto i ferri. Ricordava anzi con piacere la sensazione "meravigliosa" dell'anestesia totale. Quel sonno indotto così profondo e ristoratore, che quasi se la prendeva con l'infermiera che al termine la svegliava con la solita frase: <<Signora... signora, mi sente?>>. Certo che ti sento, ma lasciami dormire ancora un po', per favore.       
<<Ma non è possibile evitarla?>>.       
<<Che cosa la spaventa?>>.      
<<Il dopo>>, rispose prontamente.     
<<Ma dopo starà meglio. Tempo un mese e la sua vita sarà meglio di prima>>.       
Ecco, appunto un mese. Non se ne parlava nemmeno. Aveva troppe cose da fare: la scuola, il Vidoleggiamo, il romanzo, la palestra. No, era escluso. Doveva esserci un altro modo.      
Il dottor B la face sdraiare sul lettino della sala visite e le fece alcune "manovre". Lalla gemette di dolore. Poi le provò i riflessi con il martelletto. La gamba sinistra non reagiva come l'altra.      
<<Scenda e cammini sulle punte verso di me>>.  
Lo fece.    
<<Ora cammini sui talloni>>.     
Si sorprese nel notare che la punta del piede sinistro non rimaneva sollevata, ma cadeva a terra a ogni passo. La sottopose ad alcune prove di forza. Perché la gamba sinistra cedeva? Perché non reagiva? Dov'era finita la sua energia? Dai, gamba, svegliati!, fai vedere al dottor B chi sei, mostragli che sollevi venticinque chili in palestra con la leg extension, mostragli che sei in grado di fare affondi con un manubrio da sedici chili in mano, che fai uno squat con trenta. Dai, cavolo, faglielo vedere chi sei!   
<<Mi dispiace, signora, ma il mio parere è che sia necessario intervenire e anche presto>>. 
No. No, la sua gamba ce l'avrebbe fatta da sola.   
<<Mi dia un'alternativa, una possibilità>>.    
Il dottor B la guardò col fare dubbioso, di colui che sapeva già come sarebbe andata a finire.       
<<Un mese di cortisone alle massime dosi, poi ci rivediamo>>.      
Ancora cortisone? Aveva appena terminato la cura che le aveva dato il medico di base. Oddio, no, di nuovo il bruciore allo stomaco, la nausea, quel malessere diffuso...       
<<Non c'è altra possibilità. Così c'è la speranza che l'ernia si secchi, si riduca di dimensioni e rientri con manovre adeguate>>.     
Di quanti chili sarebbe ingrassata? Fu il primo pensiero che la colse. Un mese a dosi massicce. Già si immaginava gonfia, a non riuscire a stare dentro i pantaloni. E se non fosse più tornata quella di prima? Il suo passato di adolescente prima bulimica e poi anoressica la investì con violenza. Fece ricorso alla forza della ragione. Era una donna adesso, non poteva pensare all'aspetto fisico, doveva concentrarsi sulla salute. Se il cortisone poteva essere la soluzione, non poteva rifiutarsi di provare, almeno tentare.        
Si sentì invadere dallo sconforto. Nonostante si sforzasse di respingere il ricordo dei suoi quindici anni, di un corpo che odiava con tutta se stessa, nel quale non si riconosceva, fino a volerlo affamare, per poi svuotare il frigorifero di notte, il ricordo tornava ancora lì. Le lotte, le crisi, la volontà di annullarsi, i pianti disperati fino al momento in cui la bulimia aveva lasciato il posto, due anni dopo, all'anoressia, a quel senso di dominio su se stessa, all'essere padrona dei propri istinti: la mente che aveva preso il comando e riusciva a quietare i morsi della fame, fino a raggiungere una magrezza quasi scheletrica nella quale amarsi, apprezzando le proprie ossa sporgenti.      
<<E va bene: cortisone sia>>.  

  
Nessun chilo di troppo, come aveva invece temuto. Nausea continua, inappetenza, debolezza, conati di vomito. Dopo un mese, quattro chili in meno. Lalla si guardava allo specchio e non ritrovava più la donna che era stata fino ad allora, la body builder carica di energie. Vedeva un sacco vuoto, i muscoli afflosciati, la pelle grinzosa che ballava attorno alle ossa che erano tornate a sporgere: costole, bacino, clavicole, spina dorsale. Non vi scorgeva più la bellezza delirante di un tempo. L'immagine che le rimandava lo specchio era quella di una donna invecchiata di colpo, l'aria malata.     
Il cortisone da solo non era bastato a sedare i dolori. Le erano stati somministrati altri farmaci: antidolorifici, antiinfiammatori e, peggio di qualunque altra cosa al mondo, oppiacei. Una settimana di oppiacei, tre al giorno.  
Chi era quella figura che giaceva immobile nel letto ore e ore, nel silenzio più assoluto? A chi apparteneva quel corpo con le sue sensazioni, con le sue allucinazioni notturne e gli occhi vacui di giorno? Tutta la sua vitalità si era spenta in poco tempo. Lalla trascorreva le giornate distesa, immobile, senza volontà, senza fare più nulla. Quasi sempre sola in casa, non aveva voglia di accendere la tivù, di ascoltare musica, di leggere, di parlare. Le giornate trascorrevano vuote nel silenzio e nella solitudine assoluta. Stop, Alt alla vita! Niente più contatti con il mondo fuori, se non qualche sms a colleghi e amici. Il mondo era degli altri, di chi era attivo, di chi lavorava, di chi aveva impegni e una vita piena, magari, sicuramente, stressata. La sua, ormai, si era svuotata di tutto.        
C'era un unico punto che si ritrovava a fissare sul soffitto della sua stanza. Lo fissava per ore, ascoltando quel fischio fastidioso rappresentato dall'acufene di cui soffriva da tempo, ma al quale non aveva fatto più caso, sommerso dal rumore della vita. 




Ora quel fischio dominava, assorbiva la sua attenzione, accompagnava pensieri cupi fino a sera, quando tutti tornavano a casa dal lavoro. Era quello l'unico momento della giornata in cui si sentiva ancora viva. Preparava la cena con quel dolore costante alla schiena e alla gamba ed era il diversivo di una giornata fatta di soli pensieri.        
Lalla non si era mai trovata prima di allora di fronte a se stessa, sempre travolta dal vortice delle mille cose da fare. Bilanci: che madre era stata? Che moglie era stata? Che figlia era stata? Che donna era stata? Che insegnante era stata? Che educatrice era stata? E le domande essenziali, alle quali aveva sempre cercato di sfuggire: chi era, da dove veniva, ma, soprattutto, dove stava andando? L'ultima, la più inquietante delle tre.   
In tutto quell'arco di tempo, Lalla si era ritrovata a piangere come non mai. Piangere per ogni cosa. Si sentiva frangibile (le piaceva riconoscersi in quel termine rubato a Giallini in "Perfetti Sconosciuti"). Così avvertiva l'intera sua esistenza: frangibile. E capiva che era la stessa di ogni essere umano, solo che nessuno si fermava a pensarci, finché non vi era costretto.


La notte era fonda. Lalla si arrampicava per un sentiero impervio, tra il fitto della vegetazione. Doveva raggiungere il Grand Hotel Campo dei Fiori dove avrebbe dovuto cantare per un riccone che aveva richiesto la sua prestazione. "Solo tre canzoni, poi te ne vai", le aveva detto il suo manager. Aveva con sé sua figlia. Era una bimba piccola, di nemmeno due anni. La sera incombeva e non riusciva a trovare l'hotel. Forse si era persa. Ansia crescente. Poi, rischiarato dalla luna, eccolo là, che si stagliava maestoso contro il cielo scuro. Entrò con la piccola per mano. Un lungo corridoio, polvere per terra, terriccio e sassi, niente vetri alle finestre, niente corrente elettrica. Se non fosse stata una notte stellata, non avrebbe saputo come muoversi all'interno di quel posto fatiscente. Una luce rossastra proveniente da una stanza richiamò la sua attenzione. Prese in braccio la figlia e vi si diresse. C'era un lettino all'interno. Solo quello. Il cellulare prese a squillare. Era lui, il manager. "Sei pronta?".     
Non cantava da anni, non sapeva se ce l'avrebbe fatta, i pezzi erano difficili. E poi c'era sua figlia. "Mettila nel letto e vai in fondo al corridoio. Troverai una porta. Aprila e entra. Canta, dai il meglio di te. E' importante. Poi puoi tornare da tua figlia".     
E se la piccola si fosse svegliata? Se avesse visto che lei non c'era e avesse avuto paura? Il posto incuteva angoscia. Non poteva abbandonarla. Solo tre canzoni. Doveva farla addormentare, doveva cullarla, cantando una ninna nanna. Sarebbe tornata subito. Tre canzoni soltanto...      
L'ambiente oltre la porta in fondo al corridoio era sfarzoso. Ospiti in abiti elegantissimi dei primi del Novecento. Pareva essere proiettati in un'altra epoca. Lei si sentiva inadeguata nel proprio abbigliamento e temeva per la propria prestazione. Si sentiva a disagio, come fosse stata "comprata" da quell'uomo borioso che troneggiava al centro della tavolata. Era per lui che doveva cantare. Ma chi era? Tre canzoni, solo tre, poi sarebbe tornata da sua figlia.       

Ultimo giorno di oppiacei: non più di una settimana, aveva detto il medico. La prima notte senza, l'effetto fu devastante. Lalla non riusciva a quietarsi, avvertiva i nervi di tutto il corpo tesi, un'ansia incontrollata che si impossessava delle membra e della mente. Scalciava nel letto, nonostante il dolore acuto alla schiena e alla gamba, ansimava. <<Non riesco a respirare>>, continuava a ripetere. <<Aiuto, sto soffocando>>.
La Guardia Medica dispose di assumere trenta gocce di Valium.       

Una strana figura nera ai piedi del letto tirava le coperte. Lalla allora le afferrava stringendole strette, perché non gliele portasse via.       
Non avrebbe più preso oppiacei da quel momento, la sola parola le incuteva terrore.


I giorni passavano, il corpo deperiva, le forze venivano meno, la mente annaspava in cerca di un appiglio per rimanere a galla. Non si era mai sentita così male in tutta la sua vita. Verso dove stava naufragando?
<<Deve riprendere a camminare, signora>>, le aveva detto il dottor B. <<Almeno mezz'ora al giorno>>.
Perché non ce la faceva? Cinque minuti, poi il passo si faceva zoppicante e poi cominciava a trascinare la gamba dietro di sé, come un tronco morto. La sentiva venir meno, senza più forza.  
Dopo un mese e mezzo, l'intervento chirurgico divenne un'urgenza. Il rischio: perdere definitivamente la gamba.

17 aprile ore 17.        
<<Mi può ripetere il suo nome, signora?>>. La voce della dottoressa in sala operatoria cominciava a giungerle ovattata, come da un'altra dimensione. Lalla provò a rispondere, ma sentì il cuore pompare forte e toglierle il fiato. Poi fu il buio.
Non fece in tempo ad aprire gli occhi, che piangeva. Medici allarmati. Perché, a cosa era dovuto quel pianto? Non lo sapeva nemmeno lei, ma non riusciva a fermarlo. Pianse fino a mezzanotte. Pianse tutte le lacrime di cui era capace, senza ritegno, senza dignità. Si vedeva proiettata verso una vecchiaia di debolezza, di malattia, in balia delle cure altrui, senza più il dominio su se stessa. Non si era mai sentita così fragile prima in tutta la sua vita. Negli ultimi tempi aveva affrontato cose che mai avrebbe pensato di dover affrontare: blocco intestinale, collasso della vescica, crisi da astinenza da farmaci ipnotici. E tutto questo l'aveva trascinata giù, sul fondo, in una sorta di totale abbandono.      
       
L'intervento doveva essere risolutivo. Tempo un mese e sarebbe stata benone, così le avevano detto tutti. Invece i mesi passavano e i dolori c'erano sempre, la vita non riusciva a tornare alla normalità. La gamba però aveva recuperato forza e sensibilità: era di nuovo la sua gamba. Ma non riusciva a camminare a lungo, si bloccava, zoppicava. Le fitte alla schiena comparivano di tanto in tanto, provocando un dolore che rendeva impossibile muoversi come si sarebbe aspettata. A quattro mesi di distanza era ancora in balia degli antidolorifici dei quali non riusciva a fare a meno. Avrebbe voluto correre, ballare, fare lunghe passeggiate, avrebbe voluto tornare a scrivere, seduta ore e ore al pc, tornare in palestra ad allenarsi, tornare a dormire sdraiata sul dorso. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora? Settembre era vicino e lei sarebbe dovuta tornare a scuola dai suoi ragazzi e voleva farlo potendo dire: <<Sto bene>>.      
Quattro mesi di sofferenze, di visite specialistiche di ogni tipo, di esami medici, di farmaci, di inattività, di pensieri altalenanti, di speranze che cadevano per un movimento sbagliato, per una fitta improvvisa e inaspettata che la costringeva di nuovo a essere immobile a letto. Una lenta e faticosa risalita.
Qualcosa di positivo, però, in tutto quel tempo, c'era stato: aveva imparato a guardarsi dentro con meno timore, aveva scoperto di poter stare da sola con se stessa anche nel silenzio, aveva scoperto di avere molte persone che le volevano bene, di essere circondata da molto affetto, a volte fatto solo di parole, altre anche di fatti. Aveva conosciuto una persona, il dottor T che le aveva spiegato che molto del suo dolore derivava dall'identificarsi col corpo. "Lei non è il suo corpo", le aveva detto. "Lei è molto di più. Deve imparare a volersi bene per quello che è nella sua essenza". Era stato anche brutale il dottor T, ma aveva ragione e Lalla aveva capito. "Perché quei piercing alle orecchie? Perché i tatuaggi?" Le aveva chiesto. "Crede forse di essere più figa con quella roba addosso?". Le aveva detto proprio così, in tono di rimprovero: crede di essere più figa così... Quella domanda le era turbinata per la testa. "Con quale parte del suo corpo si identifica di più?", le aveva chiesto? "Ha mai provato a pensare che lei non è quella che appare agli altri, ma è molto di più? Si è mai chiesta chi sia veramente, perché sia al mondo, quale sia il suo scopo su questa Terra? Che cosa vive a fare?". Le domande e le affermazioni del dottor T l'avevano mandata in crisi. Rifletté a lungo su quelle affermazioni. Il suo voler essere sempre impeccabile, il non uscire mai di casa senza trucco o con un capello fuori posto, la sua cura maniacale per il corpo che l'aveva portata ad allenamenti feroci, il non essersi mai accettata per come era, il suo avere rincorso sempre un'immagine ideale di se stessa, creata nella sua testa quando era ancora una ragazzina che rifiutava di essere quella che era, al punto da scivolare nell'auto-distruzione rappresentata da bulimia e anoressia... Era tutto sbagliato. Il dottor T aveva ragione: Lalla aveva dedicato l'intera vita a inseguire una perfezione che non avrebbe mai raggiunto, dimenticando di curare l'anima.   
Aveva iniziato un percorso nuovo, supportata dal dottor T. E aveva iniziato col coraggio di mostrarsi come mai avrebbe immaginato di poter fare: uscire di casa in tuta, infradito, niente trucco, capelli spettinati. Prima, di fronte a quell'immagine di sé allo specchio, avrebbe detto: sei una sciattona, ora diceva sembri una sciattona, ma ti senti bene anche così. E, fuori, il mondo l'avrebbe accolta ugualmente: non più una apparenza, ma una sostanza.
La risalita era cominciata. La guarigione poteva e doveva iniziare da lì.


lunedì 7 maggio 2018

OCULUS

Al link seguente, il mio racconto OCULUS  pubblicato da "Letture da Metropolitana", nell'ambito del FESTIVAL DELLA FANTASCIENZA.

Leggi OCULUS

Com'è nata l'idea di questo racconto...

E' nata principalmente da una riflessione sul mondo virtuale che oggi tanto coinvolge i ragazzi (e non solo loro), fino a estraniarli dalla vita reale, riducendo i rapporti e le amicizie a qualcosa che si "concretizza" dietro allo schermo del pc. Ho immaginato un futuro in cui non ci sarà più bisogno di intrecciare relazioni autentiche fra le persone, in cui non sarà nemmeno più necessario uscire di casa per andare a scuola, per fare acquisti e quant'altro. 
Secondariamente, ho preso spunto da un corso di aggiornamento, che ho seguito quest'anno come docente, dal titolo LA DIDATTICA IMMERSIVA, un tipo di didattica che consente di trovarsi in un posto senza esserci veramente.

Ho unito questi due elementi e, voilà!, è nato OCULUS.

venerdì 30 marzo 2018

I FRILLINI

E' nata la collana de "I Frillini", i gialli per ragazzi da 9 a 13 anni targati Fratelli Frilli Editori.
A Giugno uscirà anche il mio. Si intitolerà: IL FANTASMA DI GIADA.

La Repubblica di Genova ne sta già parlando.


domenica 4 marzo 2018

PREMIO EUROPA 2018


Felicissima per avere conseguito il primo posto con il racconto "Tempo scaduto", con giudizio unanime della giuria.
GRAZIE 
DI CUORE!


Qui a lato, l'articolo di Roberta Galli. 

Sotto:
il retro dell'astrolabio dorato personalizzato 
e il momento della premiazione.





L'Assessore alle Pari Opportunità del Comune di Pisa, Marilù Chiofalo,
premia la scrittrice Laura Veroni

Foto tratta dal blog cattivabambina


martedì 9 gennaio 2018