lunedì 9 aprile 2012

I RICORDI DI LALLA



I RICORDI DI LALLA


NATO NEL 2002 COME TESTO DI NARRATIVA PER LA SCUOLA MEDIA INFERIORE, COMPRENSIVO DI ESERCIZIARIO FINALE, E PUBBLICATO A CAPITOLI NEL SITO DEL CIRCUITO SCOLASTICO, IL LIBRO, OPPORTUNAMENTE REVISIONATO, E' DI RECENTE DIVENUTO UN ROMANZO BREVE, DESTINATO A UN PUBBLICO DI TUTTE LE ETA'.

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INTRODUZIONE

“Il libro è la storia della mia vita dall’infanzia all’età adulta. Gli episodi narrati sono realmente accaduti e tutti i personaggi citati sono realmente esistiti, alcuni di loro ancora esistenti. Per rispetto della privacy, ho omesso di riportare cognomi e riferimenti precisi che possano in qualche modo consentire al lettore di individuare i soggetti citati.
L’ episodio narrato nel finale, invece, è frutto della mia fantasia.
Ho scritto questo libro, dietro insistenza di mia figlia, che per molto tempo, alla sera, continuava a chiedermi “Mamma, raccontami la tua vita…”.


A Ilaria e Gianmarco…

I RICORDI DI LALLA

di Laura Veroni



Notte agitata, di fumo, di nebbia e latrati di cani. Il verso di una civetta, lugubre nel buio del bosco, le aveva tenuto compagnia. 
Quando la sveglia suonò, aprì gli occhi a stento, madida di sudore nella camicia da notte incollata alla pelle. Si mise a sedere nel letto, senza accendere la luce. Lentamente fece scivolare una gamba fuori dalle lenzuola, poi l'altra. Col piede, andò in cerca di una ciabatta. Poi l'altra. Si alzò a fatica e trascinò i passi pesanti fuori dalla stanza, in direzione del bagno.      
Fuori albeggiava e vampate di raggi di sole accendevano il cielo di un rosa aranciato. Aprì la finestra e respirò l'aria del mattino a pieni polmoni.         
Un brivido di piacere le percorse la schiena. Raddrizzò le spalle, si avvicinò al lavandino e, finalmente, accese la luce.        
Guardandosi allo specchio, sorrise con aria stanca. Aveva il viso disfatto. Raccolse i capelli, bianchi come neve, dietro la nuca e si passò una mano leggera sul volto, accarezzandosi le rughe profonde che solcavano la pelle. Aveva lo sguardo annacquato. Di vita, di stanchezza, di gioie e dolori vissuti.    
Nella casa, a farle compagnia, solo il silenzio. Nemmeno il verso della civetta. Nemmeno il latrare dei cani.  
Lalla si sentiva ogni giorno più stanca. Sciacquò il viso con acqua gelata, poi si lasciò trasportare dai passi pesanti fino in cucina, per preparare la colazione.      
Passando per il salotto, sorrise alle foto dei suoi cari appese alla parete e andò col pensiero ai figli ormai grandi, al marito partito per un lungo viaggio senza ritorno, a quella che era stata un tempo, alla sua gioventù.      
Goffamente e con movimenti lenti delle mani apparecchiò la tavola: da ottant'anni sempre gli stessi gesti, da ottant'anni sempre la stessa colazione: yogurt, crostini spalmati di miele e una tazza di caffè nero bollente.          
Poi si lasciò cadere, pesante, sulla solita sedia: quello era da sempre il suo posto. Immaginò i volti dei figli bambini che le sedevano di fronte. Sentì ancora la presenza del marito che le stava di fianco. Chiuse gli occhi e col  pensiero si finse ancora a trent'anni. Il profumo della vita le entrò nelle narici, misto all'odore intenso del caffè. E lo respirò. Lo respirò a fondo. Non volle riaprire gli occhi e decise di rimanere così, a guardare la vita passarle davanti come la pellicola di un film.   
Tanti nomi presero allora forma nei meandri della memoria, anch'essi rugosi.
Riaprì gli occhi, si alzò e andò in cerca di quella vecchia scatola di legno che conservava ancora, chiusa nell'armadio della camera. L'aprì: odorava di muffa. Rovistò tra le carte in cerca di vecchie fotografie ingiallite, poi si mise a sedere sulla sedia a dondolo, accanto al letto, le posò sulle ginocchia, inforcò gli occhiali e cominciò a guardarle una ad una.


NONNA LISA E LA CASA AL LAGO

ll lago aveva sempre quell'orribile puzzo di marcio e di acqua stagnante, mentre soffiava da nord un vento freddo, da far rabbrividire fino alle ossa. Lalla si stringeva nel cappottino scozzese, stringendo più forte la mano di sua  madre, che seguiva docile fino alla biglietteria. Indossava un cappello di pelo marrone, legato sotto il mento da un laccio di pelle, terminante in due buffi e curiosi pon-pon che oscillavano, seguendo l'andatura della piccola. Lo sguardo di Lalla era malinconico, rivolto verso l'auto verde bottiglia, parcheggiata più in là, una Giulia Alfa Romeo, che il padre aveva acquistato da poco. Anche lo sguardo di lui era rivolto verso la moglie e la figlia. Di lì a breve, avrebbe fatto inversione di marcia e sarebbe scomparso oltre il viale alberato, che conduceva all'imbarcadero, per ricomparire solamente ventiquattro ore più tardi. Il suo sabato sarebbe stato all'insegna delle carte e delle bocce, una serata tra amici, al vecchio bar dell'Angela con le dita nel naso, che dava il resto ai clienti, pulendosi le dita nel grembiule. Lalla chiudeva gli occhi e già immaginava il locale pieno di fumo e di omaccioni volgari e rozzi che tenevano fra le mani carte unte e sgualcite, mentre bestemmiavano davanti a un bicchiere di vino. Percepiva chiaramente quegli odori, così come avrebbe percepito altrettanto chiaramente l'odore di piscio, proveniente dai gabinetti del traghetto, gabinetti dalla porta sempre aperta, attraverso la quale si intravedeva la turca, incrostata di calcare ingiallito. Il calore eccessivo del riscaldamento avrebbe fatto evaporare velocemente l'urina dei bagni, trasportandone il puzzo in tutto l'ambiente, fino in fondo al traghetto, là dove c'era il bar e dove spesso sua madre si recava per consumare al bancone un cappuccino, "per scaldarsi di dentro", così diceva. Lalla era attratta irresistibilmente dalla carta dei cioccolatini appesi a quello strano alberello di metallo al lato destro del banco, quei Boeri luccicanti nella carta rosso brillante, che a sua madre piacevano tanto.
La coda alla biglietteria era ultimata e la mamma teneva in mano i biglietti. Anche il traghetto stava attraccando al molo. L'acciaio della carena stridette contro il massiccio palo di legno, attorno al quale si avvinghiavano putride alghe verdi, che vomitavano schiuma, come le fauci di un drago marino.
Gli uomini in divisa blu disciplinavano la gente, invitandola a salire composta, in fila indiana, lungo la passerella di sasso che conduceva al traghetto. Tra loro ce n'era sempre uno giovane e carino che a Lalla piaceva molto. Ormai li conosceva tutti, perché da anni, ogni sabato pomeriggio, lei e sua madre si imbarcavano per attraversare il lago e raggiungere Intra, all'altra sponda, dove abitava la nonna materna.
Si incontravano spesso le solite facce, gente che ogni fine settimana traghettava da una sponda all'altra, forse, come loro, per far visita a parenti, forse perché rientrava dal lavoro di pendolare del lago.
Era quasi l'imbrunire di quel gelido pomeriggio d'inverno. Imbarcati, ebbe inizio il solito fastidioso rumore dei motori al massimo che, misto agli odori e al calore insopportabile delle serpentine del riscaldamento, provocò il solito mal di testa a Lalla. Chissà sua madre come viveva tutto questo? Per lei era una routine sgradevole, cui non poteva sottrarsi: era ancora troppo piccola per imporre la propria volontà, ma, quando fosse stata grande, allora sì che si sarebbe imposta! Basta Intra, basta lago, basta puzza e basta vomito e mal di testa. Già, il vomito, anche quello era un rituale. Del ritorno, però: all'andata non le succedeva mai. Capitava sempre al rientro dal week-end, la domenica sera, appena varcava la soglia di casa: era come se il suo organismo avesse bisogno di svuotarsi di quanto accumulato in quei due giorni di pura passione. Una volta non fece a tempo ad arrivare a casa e rimise la cena appena scesa dal traghetto, proprio davanti all'imbarcadero. Aveva chiara memoria di quella cena, a base di carne di manzo cotta nel burro. Il burro... bleah! Le sembrava di sentire ancora nelle narici l'odore dolciastro del panetto che la nonna metteva a rosolare nella pentola. Rosolava fino ad imbrunire, poi la nonna metteva la carne in padella e la faceva cuocere a viva fiamma, con chissà quale altra diavoleria dentro. A Lalla proprio non piaceva il modo di cucinare della nonna, ma non aveva mezzi di opporsi. <<Mangia, mangia che devi crescere!>>, insisteva la nonna, spalleggiata dalla mamma. Eppure sua madre sapeva che a lei certe cose proprio non andavano giù, ma sembrava dimenticarsene ogni volta, quasi fosse sempre una sorpresa. Lalla, quella volta, non riusciva ad ingoiare il boccone di carne. Ricordava ancora quanto fosse dura, pari alla suola di una ciabatta. Forse la nonna l'aveva cotta troppo, ma, dietro l'insistenza delle due donne, si era sentita in obbligo di ingoiarlo. La risposta del suo corpo fu immediata e lo stomaco rispedì fuori all'istante quanto aveva appena ricevuto. Mamma e nonna allarmate credettero opportuno preparare una calda minestrinasistemastomaco. <<Manda giù, che ti fa bene!>>.
Accidenti agli adulti che non vogliono ascoltare le ragioni dei piccoli! Lalla non voleva la pastina! Non aveva nessuna voglia di mangiare. E poi la nonna aveva la mania di infilare il burro dappertutto! Quindi, burro anche nel brodo. Terribile! Il risultato fu una mareggiata gastrica che esplose in pieno, scesa dal traghetto, dopo che il lago ebbe cullato per ben mezz'ora il brodino miracoloso.
I week-end dalla nonna Elisabetta, detta Lisa, erano piuttosto noiosi per Lalla. Sua madre passava il tempo a chiacchierare, sfogliare riviste (la nonna conservava un sacco di giornali scandalistici, pieni di pettegolezzi, e di fotoromanzi, da "Stop" a "Grand Hotel") e riordinare le cose della nonna. Lalla, invece, annoiata a morte, cercava di ammazzare il tempo come meglio poteva: giocava a carte, leggeva a sua volta i fotoromanzi, disegnava, consumando ogni volta un intero block notes, destinato alla lista della spesa.
La casa di nonna Lisa era strana: sua madre le diceva che si trattava di una chiesa sconsacrata. La vecchia porta d'ingresso, verniciata di bianco e mezza scrostata, con un grande catenaccio all'interno, dava direttamente sulla cucina. Come si entrava, si veniva avvolti dalla ventata di calore della vecchia stufa a carbone. Lalla si divertiva a sbirciare all'interno, attraverso la graticola di ferro, i tizzoni ardenti. Al centro del locale, campeggiava un tavolo col piano in formica verde, striata di bianco, come le sedie, e le gambe in freddo ferro, coi gommini neri, sotto, per non rigare il pavimento di grosse piastrelle nere e bianche. Un arco, chiuso da una tenda di stoffa scura, retta da un'asta metallica con ganci ad anelli, divideva la zona giorno dalla zona notte. Oltre la tenda, la camera da letto. Un solo letto ad una piazza, senza testata né pediera, addossato contro la parete frontale, un comodino, un comò massiccio, sormontato da un vecchio specchio e un armadio, lungo la parete di fronte. Là c'erano una nicchia nel muro ed un soppalco: l'ubicazione dell'altare di un tempo. Le pareti erano tinte di rosso cardinale, mentre il soffitto era bianco, ingrigito dal tempo. Accanto al comò, un altro arco con tenda separava la camera da letto da un locale piccolo, con lavandino, adibito a ripostiglio e bagno, anche se mancavano water e bidè. La nonna ci teneva una grossa tinozza per lavarsi, dopo avere fatto bollire l'acqua (il rubinetto forniva unicamente acqua fredda). Vi conservava anche un armadio a muro, sui cui scaffali erano riposte scatole di pasta, riso, zucchero e sale; bottiglie d'olio, scatolette di tonno e sardine, confezioni di biscotti secchi, detersivi.
I servizi igienici si trovavano sul pianerottolo, in comune con gli altri inquilini.
Lalla odiava andare al bagno: era buio, puzzolente e freddo. Mancava la corrente elettrica all'interno e bisognava sempre portarsi appresso una torcia. L'unico punto luce era un buco nel muro, che dava direttamente sulla scala, dal quale era possibile spiare all'interno. Il WC era una turca, scomodissima, ma sicuramente igienica, dal momento che veniva utilizzata da un gran numero di persone. Al posto della carta igienica, c'erano diversi fogli di giornale, riposti su una mensola di legno. Un maniglione penzolante da una catena serviva ad attivare lo sciacquone. Poiché Lalla non riusciva assolutamente ad abituarsi a quella scomodità, la nonna si era procurata un vecchio vaso da notte in ceramica, che teneva nel ripostiglio dietro alla camera da letto: Lalla lo utilizzava nello stanzino.
Quando le giornate erano calde, il sole inondava le stanze di luce accecante e di calore e la nonna abbassava il tendone verde del terrazzino, spalancava le finestre e lasciava entrare l'odore del cortile e i suoi taglienti rumori.          
Di sotto c'era il magazzino di una ditta di apparecchiature elettriche, la ditta del Carmine, e, di tanto in tanto, si sentiva il rumore di una saldatrice o di una sega elettrica. Lalla, allora, usciva curiosa ad osservare i movimenti del cortile. Il terrazzino pericolante, con la bassa ringhiera in ferro battuto e il pavimento in sasso alquanto traballante, non le dava nessuna sicurezza e lei si avvicinava cauta.               
Un senso di profonda irrequietezza la pervadeva nel sentirsi osservata, anzi, spiata, da una presenza sinistra: era la Maria dei gatti! Quella brutta faccia da strega le incuteva un terrore sottile che si insinuava leggero, a partire dalla punta dei piedi fin su alle ginocchia e poi ancora su, fino alla gola, strozzata in un nodo, e ancora su, fino alla punta dei lunghi capelli castani. Un tremito la percorreva, ogni volta che incontrava quello sguardo diabolico, incorniciato da una miriade di rughe profonde, solcate nella pelle, accartocciata come un vecchio foglio di carta sgualcito. Una strega. Una vecchia e brutta strega: non poteva essere nient’altro la Maria dei gatti, con quella chioma arruffata di capelli bianchi, che cascavano a ciocche scomposte sulla fronte. E la puzza dei gatti, quell’odore disgustoso di animale selvatico tenuto in cattività olezzava dalle finestre appena socchiuse, con le tendine di pizzo ingiallite appiccicate ai vetri, che non lasciavano sbirciare all’interno di quella casa misteriosa. Chissà quali segreti racchiudeva quell’orribile casa? Lalla si  domandava come vivesse la strega. Nessuno l’aveva mai vista uscire di casa. Nessuno l’aveva mai incontrata per le scale, ma tutti ne avevano udito i passi pesanti, strascicati dietro la porta, ogniqualvolta qualcuno vi passava davanti. Ogni tanto, uno dei gatti si affacciava sul davanzale e spiava verso il terrazzino della nonna, per poi ritrarsi rapido, alla vista di un’altra presenza.
Di che cosa si cibava la Maria? Lalla osservava in silenzio e si chiedeva se i gatti fossero sempre gli stessi, se diminuissero di numero, se, di tanto in tanto e chissà da dove, ne arrivasse qualche altro.
Poi, l’attenzione veniva catturata dalla scimmietta del terrazzino all’ultimo piano, dall’altro lato della vecchia casa di cortile. Povera scimmia! Sembrava impazzire, racchiusa in quella gabbia ristretta! Rita, già, Rita, così si chiamava. No, non la scimmia: la padrona. La Rita con tutti i suoi figli, amici d’infanzia della mamma, con cui chissà quante volte aveva giocato nel vecchio cortile, tutti ormai uomini, come uomini erano i figli della signora del piano di sopra. Di quella proprio non riusciva a ricordare il nome. Ne ricordava però un altro: Nanni. Sì, Nanni. Era uno dei cinque figli. Il padre era malato. Lalla portava stampata nella memoria, fresca come una mano di vernice appena stesa, l’immagine di quel vecchio sdraiato nel letto di quella lugubre casa, sempre buia, con le persiane chiuse e l’odore stantio delle pareti ammuffite. Un odore di marcio. Come di marcio odorava quel corpo nel letto. Lalla non osava avvicinarsi e lo scrutava sospettosa a distanza, mentre sua madre la invitava ad avvicinarsi per salutarlo. Ma lei proprio non voleva: perché doveva farlo? Aveva paura di quel corpo, di quegli occhi che la guardavano vitrei e mobili come biglie impazzite, che rotolavano e poi, di colpo, si fermavano, dopo avere sbattuto contro un ostacolo. E lei era l’ostacolo. Se li sentiva addosso quegli occhi inquisitori e vi leggeva sul fondo una domanda, cui lei non avrebbe saputo rispondere: sto forse morendo? Questo chiedevano, mentre la paura si stampava in faccia a quell’essere marcio. Marcio, sì, con tutto il rispetto che Lalla poteva comunque provare per lui, che era e restava comunque un uomo, anche se aveva davvero poco di umano. Quello squarcio in mezzo alla gola, quel tubo che fuoriusciva dal collo... da lì uscivano i suoni metallici prodotti dal vecchio. E Lalla ne aveva paura.       
<<Vieni, Lalla! Avvicinati! Fammi vedere come sei cresciuta!>>, articolava le sillabe in modo alterato. Era colpa di quel buco, Lalla lo sapeva. E non osava avvicinarsi, quasi avesse timore di venirne risucchiata, di poter essere inghiottita, fagocitata.
<<Dai, avvicinati!>>, la incoraggiava sua madre, sorridendo al corpo nel letto. Ma come faceva a non capire che lei non voleva? Non voleva farlo. E quegli occhi la scrutavano ancora interrogativi, con quella cupa, terribile domanda: sto forse morendo? E l’idea di quella cosa che avvertiva, senza nemmeno capire di cosa si trattasse, la allontanava da lui. Sì, Lalla aveva paura del vecchio, del vecchio e di quello che rappresentava ai suoi occhi di bambina: la morte. Così come aveva paura di Giannino.            
Giannino,  il nipote di quell’altra strana nonna del piano di sopra, nell’appartamento del lato frontale del vecchio palazzo: la Celestina. Lalla l’aveva sempre guardata con sospetto, in cerca di un’ombra celeste da qualche parte. Perché Celestina? Che nome era mai quello? E che strana persona! Lei e il suo folle Giannino.
Giannino era un ragazzo malato, così diceva sempre sua madre. Bisognava stare attenti, perché non aveva tutte le rotelle a posto, quello. Una volta aveva dato fuoco alla fabbrica di apparecchi elettrici, sotto, nel cortile, e per poco non era bruciata tutta la casa. Un’altra volta aveva appiccato il fuoco ad una cartiera. Forse era anche stato in prigione, il Giannino. Ma a Lalla non faceva paura per quello: lei ne era terrorizzata per quel piede, chiuso dentro a quello scarponcino nero dalla strana forma, come lei non ne aveva mai viste. Per Lalla, l’essenza di Giannino era tutta racchiusa in quel piede.  
Giannino la guardava con occhi golosi, le mani sudate e frementi, bramose ogni volta, con una scusa qualunque, di toccarla. Lalla se le sentiva addosso sudate e respingeva il pensiero con forza.  Era grande, molto più di lei, ma non avrebbe saputo dire quanto.
Una sera in cui la mamma era tornata a casa, lasciandola per qualche giorno dalla nonna, erano andate insieme a far visita alla Celestina, tanto per farle un po’ di compagnia.    
Lalla aveva tremato al solo pensiero, perché anche Giannino si era fermato là per la notte. Lei aveva pregato la nonna di non andarci, ma quella non aveva voluto sentire ragioni: era sua amica ed erano solite stare per un po’ insieme, dopo cena. <<Mi annoio dalle tue amiche>>, aveva detto Lalla.        
<<Non ti preoccupare: mentre io parlo con Celestina, tu potrai giocare con suo nipote>>, aveva risposto la nonna.     
Proprio quello che Lalla non voleva. Come faceva, lei bambina, a giocare con un ragazzo così grande? Grande all’anagrafe, perché di cervello aveva sì e no la sua età.   
Trascorse la sera in uno stato d’angoscia, con l’adrenalina che lanciava scariche amare di ruggine elettrica in bocca, proprio sulla punta della lingua. Come poteva lei, così piccola, far capire qual era il motivo della sua reticenza? La nonna, che solo a parlare di certe cose cominciava con Gesù, Giuseppe e Maria e correva a baciare il crocefisso.
Le bambine della tua età nemmeno devono saperle certe cose! Le pareva già di sentirla, mentre con lo sguardo correva all’immaginetta del Papa Buono, stampata sulla medaglia che portava al collo.
Aveva completamente rimosso il ricordo di quella sera, ma non avrebbe mai rimosso il ricordo di Giannino!                

Lalla si annoiava mortalmente, quel pomeriggio. Faceva un caldo soffocante e il sole batteva forte sui vetri spalancati delle finestre, inondando la vecchia cucina di vampate d’afa e calore.
Dopo pranzo, la nonna era solita andarsene a letto a schiacciare un pisolino. Quello era il momento peggiore della giornata, perché Lalla si ritrovava da sola, ad aspettare che il lungo letargo di nonna Lisa finisse. Che noia restare da lei! Avrebbe voluto tornarsene a casa sua, dalla mamma e dal papà. Li sentiva così lontani! A Intra, a casa della nonna, non c’era nemmeno il telefono e, per sentire la loro voce, doveva aspettare la sera, quando, dopo cena, andavano a fare una passeggiata sul lungolago e si fermavano al bar di fronte a casa, per telefonare. Ma non tutte le sere la nonna aveva voglia di uscire. Mancavano ancora alcuni giorni, prima che la settimana volgesse al termine e la mamma tornasse a riprenderla.
A Lalla piaceva giocare alla parrucchiera: si divertiva un sacco a pettinare la nonna col pettine a coda, cotonarle i capelli bianchi e giallicci, ondulati e setosi. Alla nonna piaceva un po’ meno, specialmente dopo quella volta in cui il pettine era rimasto ingarbugliato tra le ciocche ed erano dovute ricorrere alle forbici, per districarlo dalla testa, dopo un’estenuante tira e molla, in cui, per poco, non le veniva strappata la chioma di netto. Lalla aveva riso. La nonna no.
<<Dai, nonna, non andare a dormire! Gioca con me!>>, l’aveva pregata. Niente da fare.
Quella volta, decise che gliel’avrebbe fatta pagare. E così, mentre la nonna dormiva di un sonno profondo, accompagnato dal sottofondo musicale del ritmico russare, lei aveva preso le forbici più grosse di tutta la casa e si era messa davanti allo specchio. Aveva lunghissimi capelli castani.
Quando la nonna si svegliò: <<Santa Maria Vergine! E adesso chi lo dice a tua madre, quando viene a riprenderti! Gesù, Giuseppe, Maria! Papa Buono, aiutami tu!>>, aveva gridato con le mani sulla faccia, quasi a volerla tenere, prima che cascasse a terra dallo spavento.
La lunga chioma castana giaceva sul pavimento e Lalla osservava indifferente la propria immagine allo specchio, praticamente pelata.
Alla nonna per poco non prese un colpo, quella volta.         
Spazzò il pavimento, poi si vestì di fretta e furia e obbligò la nipote a seguirla dalla parrucchiera, la mitica Mercedes. Avrebbe dovuto sistemare il taglio alla bell’e meglio, ammesso che questo fosse stato possibile. Dovette prendere la macchinetta e andarci pesante.
<<Tua madre mi ammazza sicuramente!>>, continuava a ripetere la nonna. <<Tua madre mi ammazza!>>  

Alla sera, prima di andare a dormire, c’erano i due soliti rituali: il bagno nella tinozza, con l’acqua bollita nei pentoloni, e le preghiere in ginocchio, davanti al quadro del Papa Buono. La seconda parte del rituale era davvero noiosa. La nonna bisbigliava tutto il rosario e non accettava interruzioni. Lalla, nel frattempo, se ne stava seduta nel letto, le gambette secche incrociate.
Ma la prima parte... quella sì che era divertente! Lalla si divertiva un mondo a spiare la nonna, mentre si spogliava, dietro la tenda che separava la camera da letto dallo stanzino adibito a bagno e dispensa, quello delle scatolette di tonno e dei detersivi.
Nonna Lisa era un donnone che pesava oltre il quintale. Il medico le aveva detto un sacco di volte che avrebbe dovuto dimagrire: ne andava della sua salute. Era asmatica, in soprappeso e fumava come una turca! Aveva le dita ingiallite dalla nicotina e le unghie marroni che puzzavano proprio di tabacco della peggior specie. Fumava sigarette senza filtro, acquistate al bar sotto casa. Due pacchetti al giorno: niente male per una con i suoi problemi! Un giorno ci mancò poco che ci rimanesse secca e il dottore le mise addosso una paura del diavolo, cosicché decise di smettere di fumare.
Tornando al momento del bagno, la nonna era una persona con un fortissimo senso del pudore e non tollerava che le venisse vista nemmeno una caviglia. Lalla, allora, spiava da dietro la tenda. La prima volta che vide quell’enorme culone comparire fuori dai mutandoni, scoppiò a ridere senza riuscire a trattenersi e la nonna si accorse di lei. Dire che si arrabbiò sarebbe poco. Era oltremodo furiosa! Gridava e starnazzava a più non posso, paonazza in viso, non si sa se per la vergogna o per la rabbia. Povera nonna! Lei che aveva dato della poco di buono a sua madre, perché un giorno aveva osato spogliarsi davanti a lei per andare a dormire e l’aveva vista con le mutande di pizzo nero! Gesù, Giuseppe, Maria!


NONNA INES

La luna era bianca e alta nel cielo. Il suo fascio di luce inondava di freddo la stanza.
Lalla si raggomitolò su se stessa, tirando le pesanti coperte su, fino al naso. Si sentì percorrere da un brivido lungo la schiena. Le imposte socchiuse lasciavano intravedere i rami secchi degli alberi, protesi verso la casa: sembravano braccia di strega. Non riusciva a distogliere lo sguardo, mentre la sua mente fantasticava di ombre e fantasmi. Istintivamente, cercò protezione dall’altro lato del letto, dove nonna Ines dormiva, e le si fece vicina col fianco. Volse il viso verso di lei. Era bellissima, così: immobile e addormentata. Osservò i lunghissimi capelli bianchi, soffici come borotalco soffiato dalle mani di un bimbo, sparsi sull’alto cuscino. Seguì con lo sguardo il profilo perfetto, le linee del volto, che la natura e gli anni avevano dipinto magistralmente intorno agli occhi, agli angoli della bocca e, orizzontalmente, lungo la fronte, come un abile pittore dipinge la sua tela. Le labbra leggermente socchiuse, le gote distese nel sonno. Il respiro era ritmico e lento, l’aria serena. Così, era così che avrebbe voluto invecchiare anche lei! Bella come la vita, bella come un angelo, come una fata, dolcissima, proprio come la nonna. Nonna Ines era straordinaria! Per Lalla era la nonna migliore del mondo, uguale a nessuna. Adorava stare da lei. Ogni sabato sera, mamma e papà uscivano a cena e la parcheggiavano là, in quella splendida vecchia villa con i gradini di pietra e il massiccio portone di legno con il batacchio in ferro battuto. La nonna abitava al piano di mezzo. Sotto, c'era la residenza dell’anziana padrona, una nobildonna milanese che usciva ogni fine settimana a respirare la salubre aria di collina. Al piano superiore viveva una strana famiglia, composta dai due genitori e da una figlia insegnante. Per Lalla quella era gente strana, perché silenziosa, impercettibile, evanescente. Si sapeva della loro esistenza, solamente per il fatto di leggerne il nome sul campanello. Per il resto, era tutto silenzio.
Quella notte di streghe e fantasmi, Lalla non riusciva a dormire: era ancora impressionata dal racconto che la nonna le aveva fatto prima di addormentarsi. Le nonne adorano raccontare le fiabe ai bambini, ma la sua non raccontava mai di Biancaneve e i Sette Nani o di Pollicino o Cappuccetto Rosso o che altro: lei raccontava terribili storie di morti e fantasmi che venivano a tirare le gambe nel letto ai bambini. Dio, quanto le piaceva starle a sentire! Nonna Ines raccontava con tale entusiasmo, che Lalla restava rapita dalle sue parole, assorbita dal tono suadente della sua voce, che, ad ogni finire di frase, si spegneva in un soffio, lasciandola col fiato smorzato in gola e il respiro a metà. Il cuore martellava forte nel petto, mentre attendeva il colpo di scena, la fine del racconto, ogni volta diversa, anche se il racconto era sempre lo stesso. Aspettava lo sguardo della nonna illuminarsi di quella luce diabolica e cattiva che solo lei era capace di accendere negli occhi, trasformandosi nel personaggio mostruoso della sua storia. E Lalla gridava e scappava a nascondersi sotto il letto, tremante di paura, con le gambe strette a trattenere la pipì, mentre la nonna la rincorreva perfida e sogghignante, con la palpebra dell’occhio rivoltata all’indietro. Lalla tratteneva il fiato e si addossava al muro con la schiena, in cerca di protezione. Quasi non respirava, nell’attesa che il copriletto si sollevasse e comparisse, spaventoso, il volto stralunato della nonna, che, nel frattempo, aveva sciolto i capelli, arruffandoli in aria, proprio come nei peggiori incubi di ogni bambino.
La nonna dormiva serena e lei ripensava alle parole, alle immagini che quelle avevano prodotto nella sua mente e sentiva i rumori, i sussurri, gli odori. Le sembrava che il pavimento in legno prendesse a cigolare sotto il peso di invisibili passi. Il cuore saltava in gola e batteva forte nella bocca, tanto da doverlo rispingere da dove era venuto e serrare forte le labbra, per non farlo scappare fuori.
Un fantasma di donna vestita di bianco volteggiava nella stanza, avvicinandosi al letto, dove la piccola giaceva, in preda al terrore. Era la donna di cui la nonna le aveva parlato: aveva i capelli lunghi e neri, un pallore spettrale nel volto. Che cosa voleva da lei? Lalla si fece coraggio e allungò una mano verso il braccio della nonna, scuotendola delicatamente, per non fare rumore. L’ectoplasma la fissava, senza distogliere lo sguardo un solo istante.   
<<Nonna, nonna svegliati! E’ qui: è venuta a prendermi!>>, bisbigliò piano. Ma la nonna non si svegliò. Il fantasma era sempre  più vicino. <<Nonna, svegliati!>>. La voce le usciva strozzata. Il fantasma era ormai ai piedi del letto e cominciava a protendersi verso di lei, volteggiandole sopra. <<Nonnaaaa!!!>>, gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Quella si  svegliò di soprassalto. <<Che cosa c’è? Vuoi farmi morire di paura?>>
<<Il fantasma: è venuto a prendermi! E’ quella donna di cui mi hai parlato tu, quella che era stata ammazzata dalla sorella e che vagava nella notte in cerca di vendetta e di un’anima di cui impossessarsi!>>
La nonna accese l’abatjour sul comodino, una piccola lampada avvolta da un telo rosso porporino con centinaia di frangettine cascanti. Poi si volse verso la nipote: <<Hai fatto un brutto sogno?>>, le chiese.
<<No, non dormivo: ero sveglia e l’ho vista! Veniva a prendermi.>> Lalla proruppe in un pianto liberatorio.
La nonna si mise a sedere nel letto, alzandosi a fatica sui gomiti. <<Non c’è nessun fantasma qui dentro>>, disse. <<Guarda anche tu>>,  la invitò. <<E poi lo sai che i fantasmi non esistono.>>
Non era vero! Esistevano: Lalla ne aveva appena visto uno e poi non era stata lei a dirglielo che esistevano? Esistevano per davvero!    

Nascosta sotto il grande tavolo della cucina, Lalla rubava i pezzi di pasta che ciondolavano ai lati, mentre la nonna tirava l’impasto di uova, acqua, farina e strutto col mattarello di legno. L’odore del lievito di birra le rimaneva appiccicato alle dita e le pervadeva le narici, ogniqualvolta portava il pezzo di pasta cruda alla bocca. Nonna Ines, da perfetta emiliana, preparava sempre la pasta fatta in casa. La sua specialità erano le tagliatelle e i tortelli con la zucca, ma era bravissima a cucinare qualunque altra cosa.
Mentre lavorava abilmente la pasta, sul fuoco cuoceva il sugo e il suo intenso profumo pervadeva ogni locale della grande casa. Lalla adorava quella casa e i suoi profumi, così come adorava l’odore del corpo della nonna, che sapeva di buono, di talco, di tenero, di amore, di nonna. E adorava l’odore del legno dei pavimenti, che sapeva di cera d’api, di olio rosso, di un dolce intenso. Adorava il traballare del parquet sotto i piedi, il tremolare dei vetri al passaggio di un aeroplano, le piastrelle della cucina, il pavimento piastrellato in bianco e nero, il marmo lucido del lungo corridoio che portava alle varie stanze, il legno chiaro delle imposte interne e quello scuro delle persiane; la porta a vetri dell’ingresso, protetta da una liscia inferriata, lo spazio smisurato del bagno padronale, tutto piastrellato di rosa, con quell’intenso profumo speziato, che usava la zia, e lo spazio ristretto dell’altro piccolo bagno, quello di servizio, che veniva usato dalla nonna e dallo zio Giorgio, lo zio sordo. Era stato tanto malato da giovane, lo zio. Una brutta malattia ai polmoni e poi un’infezione alle orecchie, che gli aveva tolto l’udito.            
Lo zio portava un apparecchio acustico, collegato agli occhiali dalla robusta montatura nera. Tra i fratelli del babbo, era quello che gli assomigliava di più: lo stesso naso, le stesse labbra, la stessa fronte ampia e stempiata, lo stesso colore degli occhi, di un azzurro marino. Così erano anche i suoi.  A Lalla piaceva introdursi di nascosto nella camera dello zio, l’unico non sposato della famiglia, quando era al lavoro. Nonna Ines non voleva che ci entrasse, perché il figlio maggiore era burbero e geloso delle sue cose e non tollerava che nessuno entrasse nella camera in sua assenza, eccetto la madre, giusto per riordinare. E Lalla seguiva la nonna, al mattino, quando spalancava le imposte e le persiane e lasciava entrare nella stanza il caldo profumo del sole e la luce abbagliante dell’estate, che rifletteva il verde degli alberi contro le pareti perlate. Mentre la nonna rifaceva il letto, alto come Lalla non ne aveva mai visti, e con due cuscini enormi, lei usciva sul balcone dalle assi di legno. Quanta paura le aveva fatto quel balcone, prima che fosse riuscita a prendere confidenza e ad uscire! La pavimentazione era in assicelle di legno, distanziate le une dalle altre quel tanto che bastava per vedere il vuoto di sotto e a lei sembrava ogni volta di dover precipitare. Se si provava a correrci sopra, traballava tutto quanto e la balaustra, anch’essa di legno, tremolava con un sospettoso cigolio. Un buco qua, un buco là, le tarme, poco alla volta, se la stavano mangiando tutta.
La stanza dello zio sapeva di lui. Sul grande comò, sormontato da un altrettanto grande specchio, stavano tutte le sue piccole cose: l’acqua di colonia con la pompetta nera, il bicchierino della dentiera, l’altro bicchiere per l’apparecchio acustico, gli occhiali di scorta e l’orologio della festa, quello d’oro, da mettere solo di domenica. E poi la bomboletta del deodorante, il Brut Faberget, dall’odore così forte e deciso che la infastidiva, urtandole l’olfatto, ogni volta che lo zio si avvicinava per abbracciarla, quando, la sera, rientrava dal lavoro. <<Sarai mica entrata nella mia camera?>>, domandava quasi urlando. Il fatto di essere sordo lo costringeva ad urlare, anziché parlare normalmente, quasi che anche le altre persone avessero difficoltà a sentire. <<Ma perché lo zio grida sempre?>>, chiedeva al babbo. <<Perché non ci sente>>, le rispondeva.
<<No, non sono entrata nella tua camera>>, mentiva, ogni volta, e la nonna confermava, complice del misfatto.
Invece lei, in quella stanza, ci entrava sempre. Le piaceva, come le altre, del resto, perché sapeva di buono, di casa, di famiglia, di zio. E lei allo zio burbero voleva bene. Anche se gridava, anche se brontolava, anche se rispondeva sgarbatamente alla nonna, anche se la stritolava, per abbracciarla e la chiamava “scimmia”, anche se la prendeva in giro per la bocca grande e le diceva: <<Meno male che , quando ridi, ci sono le orecchie a fermarla!>>


LA SARTINA

La sartina era l’amica del cuore della nonna Ines. La chiamavano così, perché da giovane aveva lavorato come sarta, insieme alla madre, in un buco di appartamento, buio e squallido, all’ultimo piano di un vecchio palazzo, nel cuore del paese, proprio sopra al bar dell’Angela. Quella vecchia casa dai gradini alti in pietra, consunta dai molti passaggi, le ricordava la casa della nonna Lisa. Lalla c’era stata qualche volta, insieme alla nonna, per sistemare l’orlo dei pantaloni del babbo o per stringere i vestiti della mamma. La stanza dove la sartina lavorava era spoglia: c’erano solo un grande tavolo, uno sgabello e una macchina da cucire.
La sartina era solita fare visita alla nonna Ines tutte le domeniche pomeriggio. Lalla di questo non era molto contenta, perché la nonna non si dedicava più a lei, ma veniva totalmente assorbita dal fiume di parole, che straripava dalla bocca mezza sdentata dell’anziana donna. Quanto le puzzava il fiato!
La nonna preparava sempre il tè caldo, quello rosso, un po’ aspro, come piaceva a Lalla, e lo serviva fumante nelle tazze disposte sul vassoio, insieme alla scatola dei biscotti al burro, quelli all’aroma d’arancia. Quei piccoli biscotti dalla forma bombata, con la crosta croccante e il cuore morbido e profumato: Lalla ne mangiava a valanghe.
Una domenica, mentre era a casa della nonna insieme ad Antonella, la cugina che aveva la sua stessa età, decisero di fare uno scherzo alla sartina e le misero il sale nel tè, al posto dello zucchero, poi si nascosero dietro al divano ad osservare la scena, ridendosela di gusto. La sartina sputò tutto quanto e la nonna si arrabbiò molto. Si arrabbiò al punto da cacciarle di casa: <<Tornatevene a casa vostra, monellacce! E vergognatevi!>>
Lalla e Toni (era quello il soprannome della cugina) finsero di andarsene. In realtà, uscirono dalla porta, ma si nascosero sul pianerottolo del piano di sotto, dopo avere sottratto le seconde chiavi dell'appartamento. Attesero qualche minuto, poi, quatte quatte, risalirono le scale ed entrarono nuovamente in casa. All’ingresso, c’era un lungo corridoio che conduceva alle varie stanze, tra cui la sala, dalla quale proveniva il suono della voce della nonna e dell’amica, che conversavano ignare. La prima stanza sulla sinistra era la camera da letto della nonna. Lalla e Toni entrarono di soppiatto e andarono a nascondersi dentro all’armadio a muro, in mezzo ai vestiti, giù, sotto all’ultimo scaffale. Erano entrambe piccolette e magre e ci stavano benissimo. Appena fuori dalle ante, si trovava il filo del campanello interno, quello che nelle vecchie case padronali si trova accanto al letto e nel bagno, per chiamare la servitù. Era un gioco da ragazzi aprire l’anta, tirare la cordicella e tornare a nascondersi. E così fecero. Il suono prodotto era identico a quello del campanello d’ingresso. La nonna dapprima andò alla porta a chiedere chi fosse, poi, dopo le successive suonate, scese le scale fino al grande finestrone a metà scala e lo aprì, per vedere: in strada, nessuno. Eppure il campanello continuava a suonare. Lalla e Toni, dall’armadio, sentivano la sartina ridere come una matta, divertita da quello strano caso, e sentivano le due vecchiette confabulare nel corridoio, mentre escogitavano il sistema per beccare il malfattore. Il gioco andò avanti per quasi tutto il pomeriggio, ma, alla fine, le due monelle vennero scoperte e castigate a dovere. La nonna telefonò ai genitori e impose che non le mandassero da lei per una settimana intera.


GATTO MANONE E IL SABATO SERA

Ah, che meraviglia il sabato sera!
Pronti... viaaa!!! Ci si preparava in fretta dopo cena, lavaggio di denti e pigiamino felpato, poi di corsa sul divano con il babbo a vedere Canzonissima, mentre la mamma finiva di lavare i piatti. Era davvero fantastico starsene acciambellata su se stessa, con gli occhi incollati allo schermo, ad aspettare che comparisse maga Maghella. Maga Maghella era il personaggio interpretato da Raffaella Carrà, la beniamina di Lalla. La faceva impazzire, perché diventava piccola come uno gnomo e si arrampicava sulla scarpa del presentatore, Corrado, col quale discuteva della trasmissione e degli ospiti. Lalla era ancora troppo piccola per capire che si trattava di finzione televisiva ed era convinta che la Carrà fosse davvero magica e possedesse una bacchetta in grado di trasformarla in un minuscolo essere vivente. Quanto le sarebbe piaciuto possedere una bambola animata, una piccola compagna di giochi in carne ed ossa!
Ma il momento più bello della serata doveva ancora arrivare. Il sabato, infatti, era la sera dedicata al lettone! Un sabato con la mamma, quello successivo col babbo. Lalla adorava quando era il turno del babbo, perché lui, prima che lei si addormentasse, le faceva sempre lo scherzo del gatto manone.
Gatto Manone arrivava di soppiatto sotto alle coperte. Lalla vedeva gonfiarsi le lenzuola e percepiva uno strano movimento là sotto. Tutta eccitata guardava negli occhi il babbo che aveva l’espressione stupita quanto la sua, quasi non sapesse quello che stava per accadere. <<Oh, che cosa succede?>>, diceva. <<Chi è?>>. <<Gatto Manone!>>, bisbigliava Lalla con la voce trepidante. Ed eccolo arrivare! Sbucava all’improvviso da sotto il cuscino e lei urlava dalla sorpresa. Il babbo, allora, cominciava a parlare con voce camuffata, dando vita al gatto, che non era niente altro che la sua mano. Gatto Manone si perdeva a dialogare con Lalla e a raccontarle tante storie, finché, vinta dal sonno, crollava addormentata. La storia più divertente, quella che Lalla chiedeva sempre al Gatto di raccontare, era quella della Carlotta, una sorta di Cenerentola rivisitata, in cui la protagonista non era povera, perché senza genitori o senza ricchezze, bensì perché aveva un sederone enorme e nessun principe voleva sposarla. Il gatto, allora, raccontava che Carlotta chiedeva alla fata buona di farla entrare in un paio di jeans strettissimi, per potere andare al ballo con il principe. La fata procurava i jeans magici a Carlotta, ma le raccomandava di rientrare per la mezzanotte, altrimenti il sedere sarebbe tornato grosso come sempre e il principe se ne sarebbe accorto. A mezzanotte, però, immancabilmente, Carlotta non si accorgeva dell’ora e... boom! un’esplosione e tutta la ciccia debordava dai pantaloni, sotto lo sguardo sconvolto del principe che commentava: <<Carlotta, ma che culone!>>. E fuggiva via sul suo destriero bianco. Lalla rideva come una matta e pregava Gatto Manone di raccontarla ancora e ancora e ancora.


CAMILLA E LA FAMIGLIA DELLA SIGNORA GIUSEPPINA

Sabato sera, spesso mamma e babbo uscivano, per andare al cinema o a ballare e lasciavano Lalla. Tre erano le famiglie che si occupavano di lei in quelle circostanze: quella di nonna Ines, appunto, quella della signora Giuseppina e Camilla.
Camilla era una signorina di mezza età, che viveva sola col suo barboncino grigio, di nome Ketty. Lalla la conosceva praticamente da quando era nata, poiché in paese gestiva l’unica merceria esistente, frequentata da tutti gli abitanti. Era una donna simpatica, alta, capelli rossi portati corti e una bella parlantina. La donna si era affezionata alla bambina da subito e spesso la madre gliela affidava anche di giorno, quando andava a fare la spesa. Lalla, allora, si dilettava a fare la sua aiutante di negozio e a ricevere le clienti. Camilla le aveva insegnato dove trovare i gomitoli di lana, dove il filo per il cucito e altre piccole cose. Di quando in quando, capitava che Camilla dovesse lasciare il negozio per qualche minuto, magari per una piccola commissione o per recarsi al negozio più vicino, per cambiare i soldi. Lalla si sentiva orgogliosa di aspettarla da sola e di ricevere i clienti al suo posto, dicendo: <<Camilla arriverà tra qualche minuto. Se intanto vuole dire a me, vedrò in cosa posso servirla.>>. Le signore del paese sorridevano, davanti a cotanta professionalità di una bimba di soli otto anni, ma alcune di loro la prendevano sul serio e cominciavano a snocciolare la loro lista. E Lalla si impegnava a cercare quanto richiesto, per soddisfare le attese. Quando Camilla rientrava, la domanda era sempre la stessa: è sua nipote? E lei, strizzandole  l’occhio, rispondeva di sì, aggiungendo che era lì per imparare il mestiere.
Capitava spesso che Lalla dormisse da lei. Era fantastico! Ragazzi che avventura! In tre in un solo letto: Camilla, il cane e lei. Ketty si accucciava in fondo al letto, mentre Lalla dormiva dalla parte dei piedi e Camilla da quella opposta. La cosa più divertente era che non c’erano regole rigide come a casa sua. Poteva stare alzata fino a tardi, guardare i film western, che la facevano impazzire, sorseggiando coca cola. E poi, quella casa era speciale. Camilla abitava all’ultimo piano di un vecchio edificio, proprio nel centro del paese, accanto alla casa della sartina. La casa era senza ascensore e sembrava non si arrivasse mai in cima. Ma, una volta arrivati, con la lingua di fuori, fantastico! Camilla apriva la porta e Lalla si precipitava dentro in quella che era la casa delle bambole! Troppo bella! Si trattava di una mansarda con soffitto molto basso. Tutto era in miniatura, specialmente la cucina e il bagno, che erano i due locali preferiti di Lalla. La cucina era veramente piccola, un angolo cottura con un tavolo piccolo, due sgabelli, un frigorifero e un armadietto adibito a dispensa: più che sufficiente, per una donna sola. Il bagno, invece, era il capolavoro della casa, perché aveva il soffitto che scendeva talmente tanto, da dover camminare piegati. E lì, evviva!, c’erano tutti i trucchi di Camilla. Lalla si chiudeva la porta alle spalle, si metteva davanti allo specchio e via col maquillage! Poi Camilla la chiamava dall’altra stanza, comunicandole che la cena era pronta. Le preparava sempre le uova al tegamino, che alla piccola piacevano un mondo, e le mangiavano insieme,  sedute sui due sgabelli, una affianco all’altra.
Lavati i piatti, andavano in salotto, il locale dove campeggiava al centro un grande tavolo di legno con alcune sedie, una poltrona comoda e, addossato alla parete di destra, il letto. Lalla si divertiva un mondo a guardare fuori dalla finestrella, da dove poteva osservare la vita di paese brulicare per strada. Giocava a indovinare le persone che passavano: ecco, quella era la moglie del lattaio, che portava il cane a fare pipì! Quell’altro era il macellaio che rientrava dal lavoro. Ed ecco il vecchio farmacista!
Al mattino, non era mai la sveglia a dar loro il buongiorno, ma Ketty, che iniziava a leccare la faccia a entrambe come a dire sveglia, è ora di andare a fare la passeggiatina!

La signora Giuseppina abitava al piano di sotto. Era una gran brava persona, con un marito e tre figli, due femmine e un maschio. Adorava i bambini, tanto che spesso ospitava pure i due nipoti, che non abitavano poi così lontano. Si offriva di tenerli a cena e pure a dormire, nei numerosi letti a castello. Lalla aveva trascorso intere giornata a casa sua, a giocare con Marco, il figlio minore, e Giovanni, il nipote. Erano tutti coetanei, mentre le figlie erano ormai piuttosto grandicelle. A Lalla quella famiglia piaceva un sacco, perché sana, solida, affabile, positiva. Entrando in casa loro, si respirava un’aria di serenità. Spesso era presente anche la vecchia nonna, la nonna Maria, madre della signora Giuseppina, una simpatica vecchietta sdentata, grassottella e sempre allegra. La famiglia era molto unita. Uscivano solo per i week end durante l’anno, poiché abitavano a Milano, mentre durante l’estate si fermavano per tutta la stagione. Quello che più colpiva Lalla di quelle persone era il loro essere sempre insieme, qualunque cosa facessero. Il marito, il signor Luigi, era un uomo buono come un pezzo di pane, che si dilettava a far giocare tutti i bambini del vicinato. Organizzava spettacoli con le marionette, teatrini e quant’altro. Alla sera, era di rito giocare a carte tutti insieme e c’era da dire che il divertimento era davvero assicurato. Ogni tanto, nonna Maria faceva i fucitt, così li chiamavano loro, ossia barava per vincere e i bambini se la ridevano a crepapelle, perché veniva regolarmente scoperta.
In quella casa non esisteva la televisione. Dopo cena, si ascoltavano le notizie alla radio, per poi spegnerla subito dopo. I coniugi Giuseppina e Luigi sostenevano che la televisione costitutiva un danno per la famiglia e per la società, perché riduceva i contatti e impediva alle persone di comunicare e di stare ad ascoltare. Ecco perché Lalla amava tanto quella famiglia: lì si respirava un senso di comunione e solidarietà, i genitori parlavano molto con i figli e tra loro, affrontavano insieme ogni tipo di problema, si davano regole che rispettavano senza fatica. Mai una parolaccia, mai un’alzata di voce. E poi, cosa mai vista da Lalla in nessun’altra famiglia, le preghiere tutti insieme, prima di mangiare e prima di dormire.


ZIA MOLLY

Zia Molly era la zia preferita di Lalla: alta, mora, giovane, bella e assolutamente affascinante. Dopo alcuni anni di fidanzamento, si era sposata col fratello minore del babbo, lo zio Aldo, e viveva con lui nella casa della nonna Ines, insieme allo zio Giorgio. Zia Molly lavorava come ragioniera contabile ed era poco a casa, ma, quando c’era, Lalla voleva stare sempre insieme a lei. Le piaceva un mondo starla ad osservare, mentre si truccava nel bagno rosa, quello grande e lussuoso della vecchia villa, il cui accesso le era consentito solamente in presenza della zia e per lei rappresentava un privilegio. Ogni volta le chiedeva: <<Trucchi anche me?>>
La zia era completamente diversa da sua madre, quanto all’aspetto, perché la mamma non aveva mai messo nemmeno un filo di rossetto ed era una bellezza acqua e sapone, inoltre sua madre portava i capelli piuttosto corti,  mentre la zia aveva lunghi capelli nero corvino, mossi e vaporosi, come quelli delle dive del cinema.
Lalla adorava pasticciarsi la faccia, mettere il rossetto sulle labbra, il mascara sulle ciglia, l’ombretto sugli occhi e la cipria sulle guance: si guardava allo specchio e si vedeva una piccola donna, immaginando quella che sarebbe stata da grande: lei si sarebbe sicuramente truccata, anche se la mamma non voleva, perché, così diceva, il trucco rovinava la pelle.
La zia era sempre elegantissima, indossava abiti di alta sartoria, confezionati su misura, e sempre all’ultima moda. Con quel fisico da indossatrice poteva permettersi qualunque cosa!
A Lalla piaceva un mondo quando zia Molly la invitava ad accompagnarla a Busto Arsizio, dove abitava una sua vecchia parente. Le piaceva, perché poteva salire sulla spider gialla decappottabile e correre veloce in autostrada, col vento che le scompigliava i capelli, mentre il mangianastri suonava a tutto volume le canzoni di Mina e Lucio Battisti, che zia Molly cantava con aria sognante: Mi ritorni in mente bella come sei in tutti i sogni miei... Lalla la osservava rapita e ammirata, mentre il vento faceva svolazzare il foulard che teneva legato con un nodo sotto il mento, occhialoni da sole scuri, con montatura bianca. Sulle mani portava guanti in camoscio, da guida sportiva, di quelli senza le dita, che le davano un’aria molto chic. Zia Molly curava molto i dettagli dell’abbigliamento ed era unica, bellissima. Sì, Lalla sarebbe diventata una donna splendida, proprio come la zia.
Erano gli anni in cui furoreggiavano la minigonna e le scarpe con la zeppa altissima, mentre il trucco prevedeva riga agli occhi molto accentuata, finto neo sopra il labbro, alla Silvie Vartan, ciglia finte e sopracciglia quasi inesistenti, come Mina. A zia Molly non mancava niente di tutto questo. Lalla si concedeva, di nascosto dalla mamma, il finto neo, disegnato con la matita della zia. Si guardava allo specchio e si trovava bellissima con quel neo. Chissà se un giorno gliene sarebbe spuntato uno vero, così non avrebbe più dovuto disegnarselo ogni volta! Sognava capelli lunghi e vaporosi, come quelli di zia Molly; invece i suoi erano lisci e setosi, dritti come spaghetti. Un giorno, però, la zia le aveva applicato un lungo treccione, i capelli di quando era bambina, che la madre le aveva fatto tagliare e che lei aveva conservato da allora. Neo, treccia lunga fino al sedere e cipria: Lalla si sentiva la bambina più bella del mondo. Ed era felice.
Zia Molly aveva una bocca carnosa, col labbro inferiore più grande rispetto a quello superiore e più sporgente. Lalla trovava quel particolare di gran classe e voleva a tutti i costi il labbro di sotto uguale a quello della zia. Così, tutte le sere, quando andava a letto, si attaccava due mollette per capelli al labbro e lo tirava all’infuori, cercando di dargli la piega, proprio come si fa con i capelli, e nelle sue preghiere, prima di dormire, diceva sempre: <<Ti prego, Gesù, fammi diventare il labbro come quello della zia>>. E Gesù dovette ascoltarla.   

A volte, quando Lalla rimaneva in casa solo con la nonna, sottraeva due arance dal cestino della frutta, sgattaiolava in camera di zia Molly e indossava il suo impermeabile nero di vernice, poi infilava le arance sotto la maglietta, simulando un seno da donna matura, e si vezzeggiava davanti allo specchio, scimmiottando le movenze della zia. La nonna era in cucina a preparare la cena, in attesa che figli e nuora rientrassero dal lavoro. Una volta entrò in camera e scorse la nipote che si specchiava con indosso l’impermeabile nero e le diede una bella sgridata: <<Quante volte ti ho detto che non devi entrare in questa stanza senza il mio permesso! E poi che cosa ci fai con quei vestiti addosso? Se ti vede la zia, si arrabbia tantissimo! Togliteli immediatamente!>>. Ma Lalla era certa che zia Molly non si sarebbe mai arrabbiata per quello: era la nonna che aveva paura. Quando, tolto l’impermeabile, la nonna si accorse delle due protuberanze sotto la maglietta, apriti cielo!
<<Boia d’un monden leder, veh!>>, che tradotto significava boia di un mondo ladro, <<Levati immediatamente quelle due bocce! Vergogna! Se lo sanno i tuoi genitori... vergogna! Sempre davanti allo specchio. Sei vanitosa.>>    
Sembrava che per la nonna specchiarsi fosse un peccato mortale e che lo fosse ancor di più piacersi. <<Lo sai che se stai troppo davanti allo specchio, al posto della tua immagine compare quella del diavolo?>>, le diceva. <<Il diavolo, sì! E se poi continui a guardarti, diventi brutta come lui!>>
Lalla, allora, aveva paura ed evitava di incrociare lo sguardo con lo specchio, così si rassegnava a rientrare nei propri panni e a seguire la nonna in cucina.
Il profumo di sugo alle carote si diffondeva per tutte le stanze, come quello del pollo al sale, che cuoceva nel forno. 


I DISASTRI DI LALLA

In casa di Lalla c’erano numerosi animali: due canarini, un cocorito, due tartarughine d’acqua, una grossa tartaruga, due pesci rossi e due cricetini nocciola.
Quando la mamma usciva per andare a fare la spesa e la lasciava a casa sola, lei si divertiva a liberare i suoi piccoli amici. Apriva la gabbia ai canarini, che svolazzavano per i locali; la apriva ai criceti, liberi di scorazzare per la casa; riempiva la vasca da bagno ai pesci rossi, per dar loro molto più spazio nel quale nuotare, invece di quell’ampolla di vetro tonda e panciuta, ma piccola; tirava fuori le tartarughine dalla loro vaschetta e le lasciava libere di passeggiare in cucina e lungo il corridoio; ma non liberava il cocorito, perché era troppo difficile riprenderlo e rimetterlo in gabbia.       
Ogni volta controllava l’ora: avevano circa un’oretta di libertà, per poi rientrare nelle loro gabbie. Lalla si divertiva un mondo a vedere i suoi animali correre qua e là.           
Quella volta, però, la mamma rientrò molto prima del previsto.        
<<Che cos’è questo macello?>>, aveva urlato, entrando in casa.  
Quasi avessero percepito il pericolo, i criceti erano corsi a nascondersi sotto alla scarpiera dell’ingresso, i canarini avevano preso a svolazzare confusamente, cozzando contro i lampadari, le tartarughe si erano affannate a raggiungere una postazione di sicurezza, ma in realtà erano rimaste sempre ferme nello stesso punto e avevano agitato le zampette, scivolando invano sul pavimento. La grossa tartaruga le aveva seguite a distanza. I pesci invece avevano continuato a sguazzare nella vasca incuranti del pericolo. Unico al suo posto, il pappagallo, che aveva gracchiato il suo verso e pronunciato a raffica l’unica parola che aveva imparato: locke, locke, locke!
Alla mamma, quasi aveva preso un colpo, nel vedere la sua casa perfetta, sempre in ordine e pulita, così orribilmente aggredita da un’orda di animali impazziti. Dopo una sonora battuta sul sedere e un’energica sgridata, il ritornello fu: <<Se scopro che lo fai un’altra volta, te li faccio sparire tutti!>>

Lalla era una bimba spensierata. Amava la vita, amava l’odore dei campi, dei prati in fiore, il caldo del sole sulla pelle, l’odore dell’aria pulita, il volo delle farfalle, il ronzio delle api, il luccicare degli aghi del suo pino, che entrava coi rami fin dentro la sua stanza.       
Il vecchio pino... Lalla lo salutava ogni mattina, appena sveglia, e ogni sera, prima di andare a letto. Gli stringeva la mano, gli accarezzava le dita e lui le sorrideva e l’accarezzava a sua volta.
Le piaceva andare a scuola, fare i compiti, passare il tempo necessario sui libri, imparare cose nuove. Era una bimba curiosa. L’inizio della scuola le piaceva per l’odore della carta nuova dei quaderni, che non vedeva l’ora di riempire di parole scritte; le piaceva per le copertine con cui la mamma rivestiva con cura i libri, affinché non si sciupassero; le piaceva per l’astuccio nuovo che odorava di plastica, per il grembiulino bianco e ordinato, per i compagni, per la maestra.
All’uscita da scuola, il babbo l’aspettava con la Giulia verde bottiglia, per riaccompagnarla a casa. La mamma le faceva sempre trovare il suo piatto preferito: la pastasciutta col ragù.
Terminati i compiti, Lalla si dilettava a giocare. Nei lunghi pomeriggi d’inverno, trascorreva le ore insieme alle sue bambole, le truccava, le pettinava, le vestiva.
La mamma la lasciava spesso in casa sola, per uscire a fare commissioni. Andava in centro con l’autobus e lei rimaneva ad attenderla per due, a volte tre ore. Ma non si sentiva sola: c’erano le sue bambole a tenerle compagnia. A volte, però, le capitava di avere paura. Succedeva, perché la mamma le faceva mille raccomandazioni: <<Non aprire a nessuno, non rispondere al telefono, non rispondere al citofono… Ci sono tanti uomini cattivi, che rapiscono i bambini. E poi ci sono gli zingari, che non aspettano altro che trovare un bimbo da solo, per portarselo via>>. Per non parlare dell’uomo nero! Quella misteriosa e terrificante figura che ogni sera veniva dal bosco dietro casa sua, per mettere nel sacco i bambini che non volevano andare a letto presto.
Una volta, la mamma tardò più del previsto e Lalla si sentì inquieta. Il guaio era che aveva sentito un rumore sospetto sul pianerottolo, appena fuori dalla porta. Cominciò a pensare che fosse successo qualcosa alla mamma, che qualche uomo cattivo se la fosse presa e che adesso stesse andando anche da lei. Aveva il cuore in gola. Sentiva chiaramente la presenza fuori dalla porta. Il rumore che produceva era simile allo strascichio dei passi con le pantofole. Frusciava e, di tanto in tanto, toccava il legno dello zoccolo con qualcosa di duro, forse un piede. Che cosa voleva da lei quella presenza? Lalla corse a nascondersi in sala, dietro al divano. Restò lì a lungo, finché non sentì inserire le chiavi nella serratura dell’ingresso: era la mamma che tornava. Solo allora uscì dal suo nascondiglio, quando avvertì la sua voce che la chiamava e che diceva: <<Sono tornata!>>
Lalla le corse incontro e l’abbracciò forte, scoppiando a piangere e raccontandole l’accaduto. La mamma la strinse a sé e le accarezzò i capelli, rassicurandola: non era nulla, solo l’uomo delle pulizie che stava ancora pulendo le scale.  

Il carrello dei liquori si prestava perfettamente per fungere da casa al lago delle Barbie.
Aveva quella graziosa ringhierina tutta intrecciata, in legno intarsiato, che per Lalla rappresentava il balcone. I buchi tondi delle bottiglie si prestavano perfettamente per le poltrone, mentre il tovagliolo ricamato sul fondo era il tappeto della sala. Poiché il carrello era a due piani, anche la casa era una casa a due piani. Al piano superiore erano le camere da letto, mentre la zona giorno era di sotto. Il balconcino si affacciava sull’acqua.
Lalla ci metteva le Barbie a prendere il fresco, nelle calde giornate d’estate.
Per fare spazio alle bambole, spostava ogni volta le bottiglie: l’amaro Petrus, il preferito del babbo; l’aperitivo Martini rosso, il preferito della mamma; il Vermut, il preferito della zia Milena, quando veniva in visita; il Brandy, il preferito degli amici del babbo; e il Vov, il preferito di Lalla. Già, perché Lalla, quando era in casa sola, li assaggiava un po’ tutti.
I maledetti avevano però quello strano buco col tappo tutto traforato, che non si riusciva a far scendere il liquore. Aveva bene in mente come la mamma doveva destreggiarsi con la bottiglia, facendola roteare, per versare il liquido nel bicchiere. Una volta, nel disperato tentativo di versarsene un po’ direttamente in bocca dal collo della bottiglia, mentre sembrava che quello proprio non ne volesse sapere di scendere, Lalla fece davvero un bel disastro: il liquore uscì tutto d’un colpo e si rovesciò rovinosamente sui vestiti e sul pregiato tappeto. Il tappeto della mamma! Come avrebbe potuto rimediare? S’ingegnò con la spugna del bagno e con la spazzola da bucato. La macchia era praticamente invisibile, ma l’odore inequivocabile. E il danno sui vestiti irreparabilmente visibile. Altro castigo assicurato.           

Quanto a disastri, Lalla non era seconda a nessuno. Ripensò a quella volta in cui fece scoppiare il barometro. Era in casa sola e si annoiava mortalmente. Terminata la sua trasmissione preferita, quella delle avventure del Signor Bonaventura, non essendoci più niente in Tv e non avendo voglia di giocare con le Barbie, decise di fare un esperimento. Appeso alla parete dell’ingresso, lungo una colonnina, accanto alla scarpiera in legno massiccio stile spagnolo, il barometro antico scrutava Lalla con fare sospetto, cercando di carpirne le intenzioni. La mamma lo aveva acquistato in un negozio di antiquariato del centro e ne faceva bella mostra nella sua casa, impreziosita da una collezione di suppellettili in peltro, rame e legno intarsiato, ricercati nei mercatini della città. L’elegante barometro segnava la temperatura, il grado di umidità e il tempo se era bello o brutto. Chissà che tempo farà nel forno? Si chiese Lalla. Staccò il barometro dalla parete e lo depose con estrema cura sulla griglia del forno elettrico, che accese e posizionò sui cinquanta gradi. Dopo alcuni minuti, estrasse l’oggetto, ne lesse soddisfatta la temperatura raggiunta e lo mise nel freezer. <<Vediamo adesso che tempo fa qui dentro!>>. Richiuse l’anta dell’elettrodomestico e si recò nella propria stanza a giocare con le bambole, dimenticandosi dell’oggetto. Fu solo quando sentì i passi della mamma che salivano le scale, che le venne in mente. Si precipitò in cucina, aprì il freezer ed estrasse il barometro: santo cielo, il vetro si era completamente crepato! Era scoppiato! E adesso? La mamma che cosa le avrebbe fatto, adesso? Lo rimise al suo posto, appeso al chiodo e corse ad aprire la porta col cuore in gola. La mamma non fece in tempo ad entrare che se ne accorse subito. <<Cos’è successo al mio barometro?>>, sbraitò, lasciando cadere a terra i sacchetti della spesa. <<Non lo so>>, rispose con fare innocente. Gli occhi della mamma le si piantarono fissi in viso e Lalla sostenne coraggiosamente lo sguardo: infondo, se era innocente, non aveva nulla da temere, giusto? Giusto.
<<Ho chiesto cos’è successo al mio barometro? L’hai fatto cadere?>>
<<No, mamma. Davvero, non è caduto.>>
<<Spiegami allora perché il vetro s’è rotto!>>. Era proprio arrabbiata.
<<Non capisco, mamma. Forse è stato quando è arrivata una ventata d’aria gelida, dopo un gran caldo, appena sei uscita! Sarà stato lo sbalzo di temperatura!>>


LE AMICHE DEL CUORE

Lorella e Loredana erano le amiche del cuore di Lalla.
Abitavano tutte nello stesso complesso condominiale e, nei giorni di vacanza, si trovavano sempre a giocare insieme.
Nei pressi della palazzina, sorgeva un’antica villa, residenza di nobili austriaci, che era stata donata al Comune ed era divenuta parco pubblico. Le tre amiche avevano avuto il privilegio di entrarvi anche prima, poiché la nonna di Lorella era amica della custode.
Era un parco favoloso, con giardinetti all’inglese, siepi accuratamente lavorate da esperti giardinieri, fiori dai mille colori e, naturalmente, la villa. Una sontuosa villa con la facciata in pietra e mattoni a vista, sormontata da una magnifica cupola con tanto di osservatorio. Accanto, proprio a lato dell’elegante ingresso, un pozzo: il pozzo dei misteri e dei desideri.
In quel parco, le tre amiche avevano vissuto le loro più eccitanti avventure.
A quei tempi erano molto in voga i gialli di Nancy Drew, un’investigatrice privata diciottenne, che, insieme alle amiche George (femmina, a dispetto del nome) ed Elizabeth, detta Beth, si cacciavano in mille guai e si divertivano a risolvere intricati enigmi, correndo ogni volta rischi da brivido. Lalla e le amiche avevano letto tutta la collana dei gialli (oltre un centinaio) e si divertivano ad inscenarne le storie. L’ambiente della villa si prestava perfettamente. Scorazzavano con le loro gambette veloci in lungo e in largo per l’immenso parco, con grande disperazione della nonna di Lorella, addetta alla sorveglianza, la quale si sgolava a chiamarle, mentre quelle tre pesti facevano finta di non sentirla. <<Uh, Maire!>>, continuava a mormorare la nonna. <<Uh Maire!>>.        
A Lalla piaceva un mondo la nonna dell’amica: era una vecchietta simpatica, energica e piena di vita e di inventiva.
Quando le tre bambine erano annoiate dai soliti giochi, riusciva sempre a coinvolgerle in qualcosa di nuovo. Una volta riuscì persino ad organizzare una sorta di “Canzonissima” con tutti i bambini del vicinato, che erano veramente tanti. Tutti in cortile, diretti dalla nonnamaestrodorchestra, a cantare a squarciagola, mentre la gente si affacciava alle finestre per assistere allo spettacolo. E la gente applaudiva quei bambini che si divertivano un mondo. Nonna Ida, così si chiamava, adorava i bambini e le piaceva prendersi cura di loro. Lalla la ricordava spesso seduta su di uno sgabello impagliato, mentre controllava i loro giochi, giù, nel cortile. Quando arrivava l’ora della merenda, nonna Ida preparava panini con la marmellata d’arance amare per tutti e a volte con la Nutella. E i bambini correvano ad assieparsi attorno a lei. Al termine della merenda, erano tutti soddisfatti e con un bel paio di baffi di cioccolata o di marmellata stampati sulla faccia.


I GIOCHI IN CORTILE

Lalla era infaticabile, una bambina dall’energia inesauribile, sempre in movimento, snodata come un tubo di gomma. Si avvolgeva su se stessa, in pose contorsionistiche pari a quelle dei circensi. Si dilettava a giocare col proprio corpo, a fargli assumere le posizioni più assurde possibili: gambe dietro la testa, gambe sulle spalle, mentre camminava con le mani, capovolta sottosopra. Le spaccate erano all’ordine del giorno, per non parlare delle ruote, delle rovesciate, dei ponti da in piedi, spinti al limite, fino a fare uscire la testa dall’altra parte. <<Prima o poi ti romperai in due!>>, diceva sempre sua madre. Ma Lalla voleva arrivare, voleva sfidare se stessa e spingersi sempre un po’ più in là, un po’ oltre, sempre più oltre. Era così in ogni cosa che faceva. Quando decideva che una cosa doveva farla, si poteva star certi che l’avrebbe fatta: testarda e caparbia, determinata, cocciuta come un mulo. Anzi, di più. La vita, tutta la vita, per lei rappresentava una sfida con se stessa. E fu così che venne scelta a scuola per rappresentare la classe in un saggio di ginnastica artistica, lei che ginnastica artistica non l’aveva mai imparata da nessuno, se non da se stessa.
Lalla amava muovere il corpo: era la migliore espressione di sé. E questo bisogno di muoversi l’avrebbe accompagnata negli anni, il bisogno di esprimersi attraverso i movimenti, i gesti, le espressioni del viso, degli occhi, dei pensieri, il bisogno di esprimersi, di comunicare, di affermare IO ESISTO.     

Erano i giorni delle olimpiadi dei gatti.
I cuccioli erano pronti per la corsa, tutti e tre legati per bene ai pattini a rotelle. Quello di Lalla aveva il pelo color cognac ed era il più simpatico. Gli altri due avevano il pelo grigio, quello di Lorella, e a strisce grigio-bianco quello di Loredana. Il gatto che per primo avesse tagliato il traguardo, in fondo alla lunghissima discesa, senza ribaltarsi, avrebbe ottenuto la medaglia d’oro. Essendo solo in tre, sarebbero comunque saliti tutti sul podio.
Dopo la corsa sui pattini a rotelle, ci sarebbe stato il lancio dalla liana: consisteva nel lanciare un gatto, legato accuratamente ad un ramo del salice piangente, il più in alto possibile: vinceva quello che volava più alto. Al termine, la gara di tuffi: tutti nella grossa tinozza piena d’acqua. Vinceva chi non affogava. Naturalmente non affogava mai nessuno, perché le tre pestifere amiche intervenivano prontamente e si davano da fare per spingere avanti i propri beniamini.
I gattini erano terrorizzati, ogniqualvolta vedevano comparire all’orizzonte la sagoma delle bambine e si precipitavano a nascondersi nel buco del tombino, accanto al marciapiede, ma venivano ugualmente stanati e costretti a subire. Chissà se qualche volta si erano divertiti pure loro? Una volta cresciuti, però, non era più stato possibile acciuffarli e le olimpiadi avevano avuto fine. 

Alle quattro di quell’afoso pomeriggio d’estate, avrebbero avuto inizio le gare di triathlon: corsa ad ostacoli, discesa coi pattini a rotelle e discesa in bicicletta in piedi e senza mani.
Lorella, Loredana e Lalla erano pronte. Avevano chiesto a nonna Ida di restare a riposare in casa al riparo dal sole e dal caldo ancora per un po’, ben sapendo che, se avesse compreso le loro intenzioni, si sarebbe opposta con tutte le proprie forze e avrebbe chiamato la mamma di Lorella, per impedire che la gara avesse inizio. Il caldo era davvero opprimente, così la nonna accettò di buon grado e lasciò che le tre amiche scendessero in cortile da sole: tanto, cosa sarebbe mai potuto succedere! Erano bambine giudiziose, dopotutto! Scatenate, ma, infondo, giudiziose. Almeno così credeva nonna Ida.
Sistemati gli ostacoli lungo tutto il percorso (scatoloni, gomme di automobili, tavolini e seggiolini da giardino), il giudice di gara (a turno ognuna di loro) si apprestava a dare il via alla concorrente e a cronometrarne il tempo impiegato, per poi riportarlo sul blocchetto che teneva appeso al collo insieme al fischietto.
E allora, pronti... via! Loredana fu la prima a partire. I gatti spiavano le mosse delle bambine da dietro il muretto, tenendosi a debita distanza. Ultimato il percorso, fu la volta di Lalla e infine di Lorella. Tutto bene fino alla discesa coi pattini, dove le tre amiche avevano totalizzato un tempo simile, distanziandosi l’una dall’altra di pochissimi secondi. Le gare erano state predisposte in ordine di difficoltà, dalla più semplice alla più complessa. Nonostante le discese da percorrere coi pattini fossero tre e piuttosto ripide, la difficoltà di quella gara rappresentava un’inezia, confronto alla discesa in bici, in piedi e senza mani. La più esperta delle tre in quell’ultima specialità era Lorella, la maggiore. Loredana e Lalla avevano imparato da lei, ma non erano da meno. Lalla si rendeva conto di quanto fosse pericoloso quello che stavano per fare, infatti, quella volta, avrebbero dovuto affrontare anche la quarta discesa, l’ultima della serie di pendenze, sulle quali si affacciavano le palazzine dove abitavano le amiche. Era la discesa più lunga, la più ripida e la più pericolosa, che terminava in un ampio spiazzo, proprio davanti al cancello del parco Toeplitz. Il pericolo era rappresentato, oltre che da tutte queste cose, dal fatto che quell’ultimo tratto di strada era piuttosto trafficato dalle auto: per quello non si erano mai spinte fin là. Di nuovo, partì Loredana per prima, quindi Lalla e infine Lorella. Ma Lorella non tornava. All’inizio, le altre due se la ridevano, pensando che l’amica non ce la facesse a risalire e che fosse scesa e stesse risalendo a piedi, spingendo la bici, ma, quando si resero conto che il tempo impiegato cominciava ad essere troppo, iniziarono a preoccuparsi e decisero di andare a vedere. Trovarono Lorella distesa per terra, con le ginocchia e i gomiti sanguinanti e la bicicletta schiantata contro il muro di cinta del parco. La aiutarono a rialzarsi: meno male niente di rotto. Ma adesso chi l’avrebbe sentita nonna Ida?
Come immaginato, quella fu l’ultima delle gare di triathlon che organizzarono.


L’AVVENTURA DI NANCY DREW

Gli indizi portavano tutti alla grande villa: la soluzione del mistero doveva essere là dentro. Nancy Drew, insieme alle amiche George e Beth, decise di effettuare un sopralluogo. Trovatesi dinanzi al maestoso edificio, si accorsero che all’interno si muoveva qualcuno. I loro cuori presero a martellare forte, come un potente rullo di tamburo.
<<Che si fa?<<, domandò George ad un tratto. Le tre ragazze si guardarono negli occhi, cercando la risposta l’una nell’altra.
<<Io direi di entrare>>, suggerì Beth. Le altre due annuirono col capo. <<Chi va?>>. Occhi negli occhi, senza parlare.
Nancy Drew, la capogruppo, questa volta non se la sentiva di farsi avanti, perché nella villa c’era realmente qualcuno. Alcuni muratori stavano infatti sistemando l’interno dell’edificio, che di lì a poco sarebbe divenuto una scuola, dapprima privata, poi il distaccamento di una pubblica.
<<Proviamo ad entrare?>>, domandò Lalla ad un tratto.
<<Ma sei matta?>>, le fece eco Lorella. <<Non possiamo. Se ci beccano siamo fregate!>>
Ma la voglia di trasgredire e di buttarsi in una nuova avventura spinse Lalla a tentare, nonostante le due amiche cercassero di dissuaderla. Si avvicinò alla porta secondaria: era chiusa. Chiaramente lo era anche la principale: i muratori si erano chiusi dentro per lavorare. Lalla alzò lo sguardo e notò una finestra semiaperta: era l’unico possibile accesso.
<<No>> fu la risposta delle amiche.
Lalla si guardò attorno: la voglia di entrare in quell’edificio, che da sempre l’aveva affascinata e misteriosamente attratta, la spinse ad agire ugualmente. Si arrampicò lungo la parete in sasso, aiutandosi con le dita della mani e dei piedi, dopo avere tolto le scarpe, per non scivolare, mentre le amiche la osservavano intimorite da sotto. <<Attenta a non cadere!>>, diceva Lorella. Loredana si teneva a distanza.
Lalla era agile come un gatto e le pietre sporgenti a sufficienza, da consentirle un sicuro appiglio. Arrivò al davanzale e vi salì sopra con le ginocchia, aggrappandosi con le mani alla finestra aperta: un salto e fu dentro. <<Ehi, ce l’ho fatta! Ora scendo ad aprirvi la porta.>> Il cuore le batteva in gola. E se i muratori l’avessero sorpresa? Che cosa sarebbe successo?
La stanza nella quale era saltata doveva essere una sorta di ripostiglio, poiché era molto piccola. Aprì la porta in legno laccato di bianco e semiscrostato e osservò fuori, nell’ampio atrio su cui si affacciava. Che favola! Il pavimento era in marmo rosa, lucido e splendente come uno specchio, nonostante il velo di polvere, come se qualcuno lo avesse appena pulito, anche se la casa era ormai disabitata da tempo. Un’ampia scalinata con una balaustra anch’essa in marmo conduceva al piano superiore e a quello inferiore. Lalla uscì timidamente: le impronte dei suoi piedi si stamparono sul pavimento impolverato e lei poté notare la differenza. Avvertì chiaramente il rumore dei muratori al piano superiore. Un secchio di calce era posato sull’ultimo gradino. Scese la scala in punta di piedi e raggiunse l’ingresso, dove le amiche l’attendevano, affinché aprisse. La chiave era nella serratura: la girò. <<Dai, presto: venite dentro!>>, bisbigliò. E richiuse la porta a chiave. Erano tutte e tre estasiate davanti alla maestosità delle stanze. Quante volte avevano sbirciato all’interno, dalle finestre del piano seminterrato e quante volte avevano sognato di poter entrare lì dentro! E adesso, c’erano per davvero.
La villa era completamente spoglia: non un mobile, non un suppellettile. Niente: solo quel secchio di calce, ancora là, su quell’ultimo gradino. <<Si va di sopra?>>, propose Lalla.
<<Sei pazza?>>, Lorella si allarmò. <<Ci sono quelli!>>
<<Io me ne vado>>, aggiunse Loredana.
<<Fifona!>>, Lalla cercò di prenderla per un braccio e di trascinarla con sé. Fu in quell’istante che si udirono i passi di un  muratore, che si apprestava a scendere le scale.
Uno sguardo d’intesa fra le tre e una fuga a rotta di collo giù per le scale.
<<Chi va là?>>, tuonò la voce robusta del muratore. E la sua ombra comparve in cima alla scala.
Arrivarono in fondo con la lingua fuori, aprirono la porta e fuggirono a gambe levate per i sentieri del parco, ridendo come matte, l’adrenalina alle stelle.
Quando giunsero sotto casa, Lorella propose di tornare alla villa il giorno seguente, per ritentare: l’impresa era stata davvero eccitante e valeva la pena viverla di nuovo.
Lalla estrasse dalla tasca dei pantaloni la chiave, fra lo stupore delle amiche.
<<Ma che hai fatto?>>
<<Sapevo che saremmo tornate>>, disse <<e non volevo passare di nuovo dalla finestra.>>
L’azione peccaminosa la fece sentire terribilmente colpevole col passare delle ore. La sua coscienza le diceva di rimediare, che quello che aveva fatto era scorretto. Terminata la cena e giunta l’ora di andare a letto, non riusciva a prendere sonno: sentiva di dover svuotare il sacco. Chiamò sua madre e le raccontò ogni cosa. Il mattino seguente, si recò con lei alla villa, per rimettere la chiave al suo posto. Due giorni di meritato castigo, senza potere uscire di casa. Ma l’avventura era stata bella ugualmente e ne era valsa la pena.


LA MAMMA ASPETTA UN BIMBO

Prima di addormentarsi, Lalla parlava per ore con una fantomatica sorella. Aveva sempre desiderato una sorella con cui giocare, con cui parlare e alla quale confidare i propri segreti. Alle elementari era l’unica della classe a non averne una. Aveva insistito a lungo con mamma e papà, ma loro sembravano sordi alle sue richieste. Però, un giorno, sentì la mamma parlare al telefono con qualcuno di una certa cosa che la insospettì e cercò di origliare. La mamma diceva, ridendo, che non era possibile, ma, dal tono squillante e acceso della voce, sembrava felice, felice davvero. Quando riagganciò la cornetta, Lalla le si fece incontro curiosa e le domandò che cosa fosse successo. La mamma sembrava restia a parlarne, forse non sapeva quali parole trovare, per spiegare il tutto, ma, alla fine riuscì a dirlo: <<Tra nove mesi avrai un fratellino>>. E scoppiò in lacrime dalla gioia. Lalla l’abbracciò forte e volle telefonare immediatamente alle sue amiche, per rivelare la notizia strepitosa.
La prima che avvisò fu Lorella: la invitò immediatamente a casa sua e, per l’occasione, nonna Ida cucinò una torta.
Ancora nove mesi e poi Lalla non avrebbe più dovuto parlare con una sorella immaginaria.
Era il 14 di Aprile dell’anno 1974 e Lalla compiva undici anni. Esattamente come undici anni prima, giorno della sua nascita, anche quel giorno cadeva di Pasqua. La mamma le ricordava spesso che l’infermiera aveva tanto insistito, perché la chiamasse Pasqualina. Meno male che non aveva seguito il consiglio! Il nome di Lalla aveva tutta una storia alle spalle: Lalla, infatti, si sarebbe dovuta chiamare Barbara. Quello era il nome scelto di comune accordo dai genitori. Il guaio fu che toccò allo zio Aldo, il fratello minore del babbo, recarsi in Municipio a denunciare la nascita della nipote e, al momento della dichiarazione, si scordò la scelta effettuata e diede così il nome di quella che ai tempi era la sua fidanzata: Laura.    
Quel giorno, la mamma non si sentiva molto in forma: il pancione era pesante e il fratellino o la sorellina dava segni di irrequietezza, perciò non si sentì di preparare alcuna festa per la figlia. Il babbo pensò quindi di portarla al Luna Park insieme a Lorella.
La giornata trascorse all’insegna del divertimento, ma la mattina seguente...
<<Il fratellino sta per nascere!>>, aveva annunciato mamma Marisa, tenendosi stretto il pancione. Lalla venne spedita a casa di una vicina e la mamma corse in ospedale, accompagnata dal babbo.
I vicini, la famiglia della signora Giuseppina, avevano prenotato il pranzo di Pasquetta al ristorante del paese e Lalla andò insieme a loro. Del pranzo non gliene importava proprio niente: il suo pensiero era rivolto alla mamma in ospedale e al fratellino che stava per nascere. Babbo Mondo aveva promesso che, non appena fosse nato, avrebbe telefonato al ristorante e si sarebbe fatto passare la figlia per dirglielo. Sarà maschio oppure femmina? Si chiedeva continuamente Lalla. In cuor suo sperava tanto in una femmina, per poterci giocare insieme, però anche un maschio sarebbe andato bene ugualmente.
Alle 13 in punto, il babbo, invece di telefonare, fece il suo ingresso nel ristorante: aveva l’aria felice e il suo sguardo era luminoso: segno che era andato tutto bene. Lalla si alzò di scatto dal tavolo e gli corse incontro, saltandogli al collo: <<Allora? E’ un fratellino o una sorellina?>>, domandò con trepidazione. Babbo Mondo la strinse forte, la baciò e poi fece il suo annuncio: era una sorellina. Lalla esplose in un urlo di gioia.
<<Come si chiama?>>. Ricordava che mamma e papà erano rimasti in dubbio fino all’ultimo momento tra Francesca e Mara. Francesca era il nome che piaceva alla mamma, mentre il babbo era per un nome più breve e meno comune. <<L’abbiamo chiamata Mara>>, rispose.        

Lalla adorava la domenica mattina. Si svegliava presto, quando mamma e papà dormivano ancora, per sgattaiolare nella loro stanza e sottrarre la sorellina dalla culla, per portarsela nel proprio letto. Quello era il momento più bello ed emozionante di tutta la settimana. Era fantastico starsene sotto le coperte con quel frugoletto accanto, tutto profumato di talco, con la pelle morbida e tenera. I grandi dicevano che i fino ai quaranta giorni i neonati distinguono soltanto le ombre, ma Lalla aveva la certezza che la sorellina la vedesse. Ogni tanto, quando apriva gli occhioni blu scuro, la fissava e sembrava proprio osservarla come se la vedesse per davvero. E Lalla voleva credere che fosse così.
La mamma l’aveva allattata per poco, così adesso la poppata avveniva col biberon. Lalla aveva spesso osservato le procedure di preparazione del latte e sapeva bene come fare. Sempre senza fare rumore, sistemava la piccola Mara nel letto, protetta dai guanciali, affinché non cadesse, e andava in cucina a preparale il biberon, poi se ne tornava a letto, prendeva la sorellina con delicatezza tra le braccia e dava il via alla poppata.


L’APPENDICITE

Una mattina di maggio, mentre Lalla era a scuola, venne colta da un terribile mal di pancia. Era da circa un anno che quel mal di pancia la tormentava di quando in quando.
Il medico sosteneva che si trattava di coliche addominali, classiche dei soggetti nervosi, ma si rifiutava di darle cure medicinali, essendo ancora troppo piccola, così si limitava a metterla a dieta: niente bevande gassate e non abusare di prodotti da forno. Ma quel mal di pancia non passava. Negli ultimi tempi, poi, sembrava essersi accentuato. Quella mattina, prima di andare a scuola, Lalla aveva salutato la mamma e la sorellina e aveva voluto fare un foto con lei.
<<Maestra, mi fa male la pancia>>, aveva detto a un certo punto.
<<Sì, va bene, stai tranquilla e vedrai che passerà>>. La maestra era convinta che fosse un modo per attirare l’attenzione, dovuto alla gelosia per la nascita della sorella. Ma non era affatto così. Col passare delle ore la gamba destra cominciava a tirare in maniera inverosimile e Lalla cominciava a sentire freddo. Era un maggio caldo e profumato di fiori e le finestre del vecchio edificio erano aperte sul cortile. <<Maestra, ho freddo. Si può chiudere la finestra?>>
<<Freddo?>> Si era stupita quella. <<Ma se si sta benissimo!>>
<<Ma io ho freddo e tanto mal di pancia>>.
Allora la maestra si era avvicinata al suo banco e le aveva toccato la fronte con la mano. <<Scotti. Ma tu hai la febbre! Dove ti fa male?>>, le aveva chiesto. E Lalla aveva indicato il punto preciso: il fianco destro. <<Mi tira anche la gamba e mi viene da vomitare.>>
La maestra allora aveva chiamato Mafalda, la bidella, e aveva fatto chiamare a casa il papà. La cosa parve preoccupante e il babbo decise di portarla immediatamente dal medico, che, visitatala, decretò che si trattava di appendicite acuta e che occorreva operare al più presto. Quindi, valigetta in mano, Lalla entrò nel reparto di chirurgia, in una stanza a sei letti con bambini e bambine. Alla sua sinistra una bimba di sei anni che era appena stata operata di tumore al polmone. Lalla rimase molto colpita dalle sue calzette rosse. L’avevano appena riportata in stanza, dopo l’intervento, e la stavano deponendo nel letto. La piccola farfugliava parole incomprensibili, ancora sotto l’effetto dell’anestesia, ed emetteva degli strani lamenti.
Alla sua destra un bambino di undici anni, in attesa di essere operato di appendicite, come lei, negli altri letti, tutti bambini già operati di appendicite, con le loro mamme accanto. Vicino a Lalla, invece, non c’era la mamma: c’era il babbo. La mamma non sarebbe potuta rimanere con lei, perché doveva occuparsi della sorellina che era appena nata.
Non appena si fu sistemata nel letto con le lenzuola ruvide, bianche e con impresso il marchio blu dell’ospedale, fece il suo ingresso nello stanzone un’infermiera, per i prelievi del sangue e per le prove allergiche: se tutti i parametri fossero stati nella norma, l’avrebbero operata l’indomani.
E giunse così il giorno dell’intervento, dopo una notte trascorsa in bianco a chiacchierare col compagno di letto. Lalla aveva paura. Era inoltre la prima notte che trascorreva lontano da casa, senza mamma e papà vicini. C’era stata una mamma che si era fermata tutta la notte ad assistere il figlio, che era stato operato il giorno prima. Era stata gentile con lei, le aveva chiesto più volte se avesse bisogno di qualcosa, ma lei aveva sempre risposto di no. L’unica cosa di cui aveva bisogno non avrebbe potuto dargliela nessuno: Lalla voleva solamente la sua mamma. E lei non c’era e non ci sarebbe stata mai, per tutto il tempo che sarebbe rimasta in ospedale.          

La sala operatoria aveva un aspetto terrificante, con tutte quelle luci abbaglianti, i ferri disposti nelle bacinelle e i dottori col camice verde e la mascherina sulla faccia. Da dietro le lenti, il chirurgo le disse: <<Adesso ti faremo una punturina. Tu conta da dieci fino a zero, lentamente.>>
Non fece a tempo ad arrivare a cinque.
Sognò di essere in un grande prato verde, con i dottori che le tagliavano la pancia.
Al risveglio, il medico le disse: <<Hai tenuto gli aperti durante tutto l’intervento.>>
I giorni trascorsi in ospedale furono bruttissimi: Lalla vedeva gli altri bambini che ricevevano visite da amici e parenti, ma, soprattutto, vedeva che avevano la mamma vicino ogni giorno, mentre lei vedeva il babbo solo per mezz’ora, quando terminava il lavoro e passava da lei, prima di tornare a casa.
La notte era il momento peggiore: in corsia c’era silenzio e nessun segno di vita. Allora Lalla cominciava a pensare: pensava alla sua casa, a sua madre, alla sorella che le aveva sottratto l’affetto della mamma. Forse era per quello che non andava mai a trovarla, forse non le voleva più bene, adesso che c’era Mara. Sì, doveva essere così, altrimenti la mamma non l’avrebbe lasciata sola. E cominciava a piangere, in silenzio, per non svegliare gli altri bambini e per non farsi scoprire da Gianni, il bimbo del letto alla sua destra, che, come lei, non riusciva mai a dormire.
Quindici giorni di degenza, due iniezioni al giorno di penicillina e tanta solitudine: Lalla se li sarebbe ricordati per tutta la vita quei giorni.


VIOLENZA D’ESTATE

Una volta a casa, le cose tornarono velocemente come sempre. Lalla si era persa il battesimo della sorellina, ma il babbo le aveva raccontato ogni cosa.
Per i primi tempi, faticava a recuperare un rapporto di fiducia e serenità con la mamma, verso la quale nutriva un certo risentimento, per averla abbandonata, ma l’affetto del babbo e la felicità per essere di nuovo nel proprio ambiente, tra le sue cose, risultarono, nel giro di poche settimane, un’ottima cura. L’unica cosa che era cambiata, e che Lalla non poteva fare a meno di notare, era la possibilità di stare vicino a Mara. Mamma e papà non volevano più che la portasse nel suo letto, la domenica mattina, né che la tenesse sempre in braccio. Il babbo diceva che, in quel modo, Mara avrebbe faticato a riconoscere la vera madre, perché si era troppo abituata all’odore della sorella e questo non era giusto. Così, Lalla fu costretta ad allontanarsi gradualmente dalla sua piccola bambola vivente. La cosa le dispiacque moltissimo: non avrebbe più sentito il profumo di talco sotto le lenzuola e non avrebbe più assaporato la felicità di quei sorrisi e di quello sguardo carico di gratitudine, per tutte le carezze e i baci che le avrebbe dato.  

E arrivò anche giugno, con la fine della scuola.
Un pomeriggio assolato, Lalla si stava annoiando a morte, perché non c’era nessuno con cui giocare, allora la mamma le propose di andare insieme a lei e a Mara a fare la spesa in paese: Lalla avrebbe avuto l’onore di spingere il passeggino. Accettò di buon grado.
Stavano percorrendo il lungo viale alberato, quando all’improvviso, un’auto, una Prinz verde scuro, si affiancò ad una donna, che camminava sul loro stesso marciapiede, qualche passo più avanti, con in braccio una bambina, che doveva avere, a occhio e croce, non più di due anni. L’auto si arrestò, il conducente spense il motore e la portiera si aprì. Ne scese un uomo sulla trentina, che afferrò brutalmente la donna per il braccio e tentò di caricarla in auto con la piccola, che prese a piangere a gran voce.
Il viale era pieno di gente e tutti rimasero immobili, atterriti, davanti a quella scena di violenza. Lalla si sentì gelare  il sangue. Anche loro si erano fermate.
L’uomo cominciò a picchiare la donna con violenza inaudita, prendendola a calci e pugni. Le strappò la bambina dalle braccia e la scaraventò a terrà.
Lalla sentì il cuore che le scoppiava in petto, mentre la gola le batteva forte, con la voglia di urlare, senza che nessun suono riuscisse a venir fuori.
Dal lato opposto del marciapiede, una giovane coppia osservava immobile la scena, con la ragazza che continuava a ripetere: <<Oddio, ma che cosa le fa?>>
Due anziani, poco più indietro, e altre persone lì vicine, ma nessuno che osasse muovere un dito, fare qualcosa, una cosa qualunque, per mettere fine a tutta quella violenza. L’uomo, intanto, continuava a picchiare la donna, che era caduta a terra. A un tratto, l’afferrò per i capelli e tentò di trascinarla verso l’auto in quel modo, con lei che urlava con tutto il fiato, mentre la bambina continuava a piangere, poco più in là.
La madre di Lalla afferrò il passeggino e iniziò a spingerlo in avanti. Fu a quel punto che Lalla ritrovò la voce: <<Che cosa vuoi fare?>>, urlò alla madre.
<<Voglio andare via di qui.>>
<<No, io non mi muovo! Non passo davanti a quello! E nemmeno mia sorella ci passa!>> Afferrò il passeggino a sua volta e oppose resistenza energicamente. <<Noi di lì non passiamo! Quello è pazzo e ci ammazza!>>
<<Non dire stupidaggini!<<, replicò la madre.
<<No!>> Lalla urlò con tutto il fiato.
Da una casa che dava sul viale, si affacciò una signora che, vista la scena, si affrettò a chiamare la polizia. Intanto il delinquente era risalito sulla Prinz ed era fuggito sgommando, lasciando a terra la donna e la bambina.
Nessuno. Nessuno si mosse, per correre in aiuto delle due sventurate, forse per paura che l’uomo potesse tornare indietro.
La donna si rialzò da terra barcollando, raggiunse la piccola, la prese in braccio e si incamminò.
Pochi istanti più tardi, arrivò la polizia sul posto. Gli spettatori erano ancora là, atterriti, immobili, come bloccati, tutti sotto shock. Un agente scese dall’auto di pattuglia, un’Alfa Romeo, e si apprestò a fare domande ai presenti. Si avvicinò alla mamma e le chiese di spiegare l’accaduto. La mamma fornì tutti i particolari della vicenda, almeno tutti quelli che era riuscita a focalizzare, ma Lalla... Lalla aveva stampata nella mente la faccia di quel folle, il suo sguardo tagliente e cattivo e aveva memorizzato, nemmeno lei sapeva come, il numero di targa della Prinz: avrebbe ricordato quel numero per anni e anni ancora. Lo comunicò al poliziotto. Un altro agente, intanto stava perlustrando la zona, in cerca di indizi: si avvicinò al collega con un ciuffo di capelli in una mano e il manico di una borsetta nell’altra.
Ultimato l’interrogatorio, la mamma decise di passare dal babbo, che si trovava al bar dell’Angela, per una partita a carte con gli amici.
Non appena entrarono, Lalla scoppiò a piangere come non aveva mai fatto nella sua vita, gettandosi nelle braccia del padre, singhiozzando a più non posso, al limite delle convulsioni, finché svenne. Si risvegliò poco dopo, con la faccia sotto il getto d’acqua fredda del lavandino del bar. Era nelle braccia di zio Gigi, l’altro fratello del babbo, che frequentava lo stesso bar, dove giocavano insieme a carte e disputavano le loro partite a bocce. Sentiva la voce confusa della mamma che raccontava quanto era successo, visibilmente scossa anche lei.
Non appena Lalla ebbe ripreso piena coscienza di sé, si aggrappò al babbo, ricominciando a piangere. L’Angela le offrì un bicchiere d’acqua fresca. Si era appena calmata, quando l’uomo nero fece il suo ingresso nel bar, ordinando al bancone un bianchino. Lalla lo riconobbe immediatamente e iniziò a urlare: <<E’ lui! E’ Lui!>>. Era terrorizzata: aveva paura che fosse venuto per lei, per picchiarla e portarla via, come aveva fatto con l’altra donna. A quel punto scoppiò la zuffa: il babbo gli si avvicinò per pestarlo, mentre i suoi amici cercavano di tenerlo calmo e lui urlava: <<E’ quel mostro che ha spaventato mia figlia!>>. Ci fu una serie di spintoni, finché un amico del babbo, detto ironicamente Nano, per la sua stazza (un metro e novanta per oltre cento chili di peso), non si avvicinò al tipo e gli disse: <<Ehi, amico, ti consiglio di cambiare aria, se non vuoi passare dei guai.>>        
Ma quello aveva un coltello in tasca.
L’Angela si affrettò a chiamare la polizia. Fortunatamente non accadde nulla di più, se non qualche minaccia a vuoto e un rosario snocciolato di bestemmie.
Ma Lalla, quell’uomo, non l’avrebbe più dimenticato e, in cuor suo, gli augurò di morire presto e che il diavolo se lo prendesse con tutta la sua cattiveria.
Lalla, da allora, avrebbe avuto paura degli uomini per molto e molto tempo, tremando ad ogni vettura che l’avesse affiancata lungo il marciapiede, fosse solo per chiederle: <<Scusa, mi sai indicare dove posso trovare via...>>


LA PRIMA SIGARETTA

Che noia i pomeriggi d’inverno, quando non c’era niente da fare e fuori pioveva!
Lalla aveva ormai undici anni e le bambole non la interessavano più. Guardava le sue Barbie, ordinate nella cesta dei giochi, inanimate, prive di vita: non avrebbero più giocato con lei, non sarebbero più state compagne di lunghi pomeriggi. Ne prese in mano una e la ributtò nel cesto. Decise di chiamare Lorella, per sapere se aveva compiti o era libera e potevano vedersi. Lorella era maggiore di tre anni, ma stavano bene insieme. Erano praticamente cresciute come sorelle.
<<Posso venire da te?>>, domandò. L’amica acconsentì. <<Finisco la versione di latino e poi stiamo insieme.>>
Lalla suonò alla porta. Nonna Ida le venne ad aprire. La fece accomodare in cucina, mentre la nipote terminava i compiti, e le preparò un panino con la marmellata d’arance.
Quando l’amica si presentò sulla porta, Lalla stava finendo la merenda.
<<Che cosa vuoi fare?>>, le chiese. <<Giochiamo a dama o vuoi vedere la televisione? Oppure giochiamo a carte?>>. No, niente di tutto quello: Lalla voleva andare in soffitta. In soffitta, sì.
La soffitta di Lorella era spaziosa e arredata come un vero appartamentino, una sorta di monolocale, e, negli ultimi tempi, le due amiche si rintanavano spesso là, lontane dalle orecchie indiscrete di nonna Ida, che avrebbe ancora voluto stare insieme a loro ad ascoltare i discorsi che facevano. Ma le due ragazze ormai facevano discorsi privati, da grandi, e della nonna non volevano proprio saperne.
Lorella era innamorata di un compagno di scuola e Lalla del garzone dell’idraulico. Quel bel biondino con la vespa verde che passava tutti i giorni davanti a casa sua, per andare al lavoro e la guardava. E anche lei lo guardava. Lo guardava e le sobbalzava il cuore in petto. Lo guardava e, chissà come, le tremavano le gambe. Lo guardava e avvampava in viso. E sentiva un certo mal di pancia. Come mai le succedeva questo? Si domandava. Lalla pensava sempre al suo biondino. Aveva casualmente scoperto che si chiamava Marco. Sarebbe stato lui a darle il primo bacio, qualche anno più tardi.
Lalla e Lorella trascorrevano le ore a parlare dei loro amori segreti. Loredana si era trasferita a Milano e non faceva più parte del gruppo.
La soffitta era il luogo ideale per le loro chiacchierate. Si chiudevano a chiave e si sedevano al tavolo oppure sul divano addossato alla parete, posizionato là, dove il tetto declinava verso il pavimento e costringeva a camminare piegati. C’erano anche la radio e un armadio con alcune coperte, che utilizzavano per scaldarsi, nei pomeriggi freddi e umidi. Contro la parete dirimpetto, un mobile basso, pieno di ogni ben di dio: sottaceti, Nutella, biscotti, merendine, marmellata, scorte di caffè, pasta ecc. Ogni tanto le amiche rubacchiavano qualche biscotto e affondavano le dita nel vasetto della Nutella, succhiandosele golosamente.
La luce verdognola di un’alta lampada con pedana creava un’atmosfera soffusa, mentre le ombre calavano, entrando nella stanza attraverso il finestrino sul tetto. Era bello, nei pomeriggi assolati, arrampicarsi sopra una sedia e aprire la finestrella per guardare il paese dall’alto dei tetti.
Un tardo pomeriggio invernale, al termine di una lunga chiacchierata, le due amiche frugarono nell’armadio delle provviste, in cerca di qualcosa di goloso da mettere sotto i denti e trovarono, nascosta dietro alle confezioni di pasta, una stecca di sigarette: le Muratti che fumava la mamma di Lorella.
Si guardarono in silenzio, leggendo l’una il pensiero dell’altra e lo fecero. La stecca era aperta. Aprirono un pacchetto ed estrassero una Muratti. L’annusarono entrambe e provarono a portarsela alla bocca, aspirando una lunga boccata dal filtro, senza che fosse stata accesa. Il sapore parve buono. <<Si fa?>>.           
Accesero la candela che si trovava sul tavolinetto sotto la finestrella e avvicinarono la sigaretta. Il tabacco rosseggiò: si era accesa! Lorella non osava provare. Fu Lalla a farlo per prima: un colpo di tosse e la gola in fiamme. <<Com’è?>>, domandò l’amica.            
<<Brucia.>>, rispose. <<Prova anche tu.>>     
E Lorella provò. Si passarono la sigaretta di bocca in bocca, come da piccole avevano fatto con le gomme da masticare, quando ne avevano una sola, finché non arrivarono al filtro. La testa girava, inebriata di nicotina. Era una sensazione strana, ma piacevole.
Quando la nonna bussò alla porta della soffitta, l’odore del fumo aveva già pervaso la stanza. Lalla e Lorella vennero prese dal panico e cercarono il sistema di nascondere le tracce del misfatto. La nonna bussava con insistenza, intimando di aprire. Lorella aveva spalancato la finestrella sul tetto, mentre Lalla aveva cercato qualche cosa per profumare l’ambiente. Non trovando di meglio, decisero di rovesciare un vasetto di sottaceti sul pavimento: l’odore forte dell’aceto avrebbe coperto sicuramente quello del fumo. Intanto nonna Ida era corsa a chiamare i genitori della nipote. Le due ragazze decisero di ingozzarsi di sottaceti, nel caso che qualcuno avesse chiesto loro la prova del fiato. E la prova ci fu. Castigo con botte per Lorella e telefonata ai genitori di Lalla. Ma quella non fu certo l’ultima sigaretta.


IVONNE

La migliore amica di mamma Marisa si chiamava Ivonne. Lalla era affascinata da quel nome alla francese, nonché dalla signorilità che scaturiva da ogni gesto di quella giovane donna. Bella, alta, lunghi capelli castani e grandi occhi marroni con ciglia lunghissime, sempre elegante, proprio come la zia Molly. Ivonne era una pittrice, che dipingeva di tutto, da nature morte a ritratti a paesaggi. Era venuta ad abitare al piano sotto al loro, quando Lalla era una bambina di soli otto anni.
All’inizio, Ivonne rappresentava la donna del mistero, la più bella signora della palazzina, ammirata da tutti, fascinosa come nessuna, ma molto riservata. Usciva poco di casa e non dava confidenza a nessuno. Aveva fatto completamente ristrutturare l’appartamento, prima di entrarvi, e ne aveva fatta una casa di gran lusso, moderna e raffinata com’era nei suoi gusti. Lalla avrebbe voluto sapere tutto di lei, come le capitava ogni volta che vedeva una bella donna e provava una forte attrazione spirituale nei suoi confronti, al punto da volere essere non solo uguale a lei, ma lei stessa. Le era capitato tante volte, con persone vere e con personaggi dello spettacolo, che mai avrebbe incontrato. I suoi idoli, a quei tempi, nei mitici anni sessanta, erano Silvie Vartan, Nada Malanima e Patti Pravo. Di queste tre cantanti, Lalla possedeva tutti i dischi e trascorreva interi pomeriggi a cantare le loro canzoni, fingendo ogni volta di essere ognuna di loro e giocando a vivere la loro vita.
Spesso le ronzavano nelle orecchie motivetti tipo Come un ragazzo capelli giù, porto il maglione che porti tu e con la cinta mi tengo su i pantalon... oppure Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va... e anche Tu mi fai girar, tu mi fai girar come fossi una bambola... La Vartan era la più bella delle tre, ma quella che maggiormente la affascinava era Patti Pravo: Lalla avrebbe dato qualunque cosa per poterla conoscere. E quando il babbo la portò in vacanza a Forte dei Marmi, una sera, fece il diavolo a quattro, perché la portasse alla mitica “Capannina”, dove si sarebbe esibita proprio la sua Patti.
Inutile: potevano entrare solo persone maggiorenni. Lalla era disperata, ma il pomeriggio seguente la vide in spiaggia, bella come una dea, che passeggiava sul bagnasciuga: era ancora più bella che in tivù. La guardò passare, finché non divenne un puntino lontano sulla spiaggia, senza aver trovato il coraggio di avvicinarla e chiederle qualcosa, una cosa qualunque.
Tornando a Ivonne, Lalla voleva sapere tutto di lei: età, gusti, vita, pensieri, nonché, in primis, il nome. Il nome, già, perché appena la nuova inquilina era venuta ad abitare sotto di lei, nessuno lo conosceva: era semplicemente la moglie del dottore. Lalla lo venne a scoprire un giorno, quando la signora aveva incollato il proprio nome accanto a quello del marito sulla cassetta della posta ed era corsa a comunicarlo alla madre.
Una sera, la signora del piano di sotto era salita da loro a chiedere se avevano del sale da prestarle e da quel momento aveva iniziato a frequentare la sua casa. La mamma non aveva molte amiche e le vedeva di rado, così era spesso sola. Il fatto di averne trovata una al piano di sotto, da vedere tutti i giorni, le aveva riempito le giornate e la vita.
Ivonne era spesso sola, perché il marito partiva per convegni o doveva fare i turni in ospedale, così trascorreva molto tempo in casa loro.
L’appartamento del piano di sopra aveva preso così, nel giro di poco tempo, ad arricchirsi di quadri e vasi dipinti a mano. A volte, Ivonne invitava Lalla a casa sua, per mostrarle come si faceva a dipingere e lei poteva assistere alla nascita di un quadro e ne rimaneva ammirata. Ogni tanto, se il marito non rientrava, le chiedeva di fermarsi a cena con lei, per farle compagnia. A Lalla piaceva un mondo stare a casa sua: c’erano un sacco di cose belle e Ivonne le lasciava provare anche tutti i suoi vestiti, inoltre si dilettava a truccarla, facendone una piccola modella. L’amica della mamma era bravissima a truccare e aveva davvero molto buon gusto.
Un giorno, Alberto, il fratello di Ivonne, venne a farle visita e Lalla per poco non svenne, tanto era bello. Peccato che lei fosse solo una bambina di undici anni, mentre lui ne aveva diciannove. Se solo l’avesse aspettata! Invece, solo un anno dopo, si sposò con una ragazza che aveva conosciuto da pochi mesi: amore a prima vista.
Il marito di Ivonne, il dottore, aveva l’hobby della fotografia. Il suo soggetto preferito era la moglie. Gli album erano pieni di sue immagini in pose da diva, tanto da parere provini cinematografici. Il dottore amava sviluppare la foto da solo, in cantina, dove aveva allestito una sorta di camera oscura. Aveva offerto a Lalla di diventare sua assistente nello sviluppo, così, ogni volta che c’era da sviluppare un rullino, Lalla lo seguiva docilmente in cantina e imparava a sua volta le tecniche. All’inizio non sopportava l’odore acre degli acidi, ma ci si abituò presto. La cosa più bella era vedere comparire l’immagine sulla carta, mentre veniva mossa adagio e con cura all’interno della bacinella con l’acido, tenuta con un’apposita pinza, nell’angolo in basso a destra. Lalla aspettava che l’immagine raggiungesse l’esatta intensità, poi sollevava la carta, la lasciava sgocciolare nella bacinella, la passava in un’altra con il liquido di fissaggio e l’appendeva al filo che correva sopra la sua testa lungo la parete della cantina. E insieme al dottore svilupparono interi album di fotografie.
Quando Lalla fu un po’ più grande, Ivonne la volle a casa sua per studiare insieme a lei gli eventi futuri: furono quelli gli anni delle sedute spiritiche con la monetina e le lettere ritagliate da fogli di carta. Lalla sembrava molto interessata alla cosa, perché cominciavano per lei i primi amori e voleva sapere quale sarebbe stato l’uomo del suo destino. Ma niente di quello che l’oracolo aveva predetto si sarebbe avverato mai.
Ivonne in cucina se la cavava davvero bene: il suo piatto forte erano i bucatini alla matriciana. Ci furono anni in cui le cene si svolgevano tra il piano di sopra e quello di sotto, all’insegna di grandi abbuffate e spuntini di mezzanotte a base di piatti di pastasciutta.
Quando arrivava l’autunno, Ivonne caricava Lalla in macchina, la cinquecento rossa, e andavano insieme nei boschi per funghi. Ivonne era un’esperta in materia. Insieme li coglievano, poi la mamma li cucinava per tutti e li mangiavano in compagnia.
Furono anni piacevoli.
Poi Ivonne cambiò casa.

  
LALLA E LAURA

Laura era diventata la migliore amica di Lalla. Si conoscevano sin dalla prima elementare, ma la loro amicizia si era consolidata solamente a partire dalla prima media, quando le insegnanti le avevano messe in banco assieme.
Lorella era ormai troppo grande, aveva già un fidanzato e cercava sempre meno la compagnia dell’amica. Loredana si vedeva in giro sempre meno, una domenica su due, quando veniva a far visita alla nonna, che era rimasta ad abitare nella stessa palazzina di Lalla, ma le sue visite si riducevano ormai a una toccata e fuga.
Durante il triennio della scuola media, Lalla e Laura avevano stretto un’amicizia viscerale, al punto da vivere quasi in simbiosi e agire sempre l’una in funzione dell’altra. Si trovavano ogni giorno per svolgere i compiti assieme, distribuendosi le materie opportunamente: Lalla era brava in italiano, latino e inglese, Laura brillava in matematica e in tutte le discipline tecnico-scientifiche. E così, mentre una svolgeva i compiti delle materie letterarie, l’altra svolgeva quelli delle materie scientifiche e dimezzavano il tempo dedicato allo studio, ritagliandosi ampi spazi per loro stesse.
I genitori di Laura lavoravano in un’officina proprio sotto casa, cosicché le due ragazze restavano in casa sole e potevano tranquillamente parlare dei loro segreti. Erano entrambe innamorate di due ragazzi molto più grandi di loro: Lalla del garzone dell’idraulico, Laura del fotografo che aveva il negozio sotto casa.
Alle amiche piaceva fare progetti per il futuro. Fantasticavano e sognavano ad occhi aperti. Da grandi avrebbero sposato i due ragazzi e avrebbero comprato una villetta a due piani, dove poter abitare insieme. Entrambe avrebbero svolto la professione di veterinaria. A dire il vero, Lalla storceva un po’ il naso, quando l’amica proponeva tale professione, perché lei avrebbe voluto diventare una psichiatra. Si immaginava già nel suo studio, dietro ad una scrivania di legno massiccio, con il camice bianco, ad ascoltare i problemi dei suoi pazienti. A lei piaceva ascoltare i problemi degli altri, ma soprattutto le piaceva entrare nella mente umana, per comprendere i meccanismi che la regolavano, per scoprire le motivazioni sottese a determinati comportamenti, per capire a fondo le persone e, perché no?, anche se stessa.
Lalla e Laura trascorrevano i pomeriggi nel lussuoso salotto. A Lalla piaceva un mondo starsene là, insieme all’amica a giocare a sentirsi grandi. La sala era immensa, con l’angolo conversazione, l’angolo pranzo, l’angolo bar e l’angolo disco. La cosa più attraente di quel locale era il fatto di essere ubicato su un soppalco: era la stanza più alta della casa. Il pavimento era in marmo tirato a specchio. Il divano, dove sedevano a parlare, era ad angolo, con tavolino incorporato, e disponeva di ben otto comodi posti. Di fronte, un altro tavolino in cristallo, con al centro un vassoio d’argento, colmo di caramelle e deliziosi cioccolatini. L’angolo bar era costituito da un mobile nero laccato, con faretti che illuminavano il piano dove servire i superalcolici. Tre sgabelli con imbottitura in pelle nera vi stavano di fronte. L’angolo era molto suggestivo, con tanto di porticina d’accesso. Nella vetrinetta laterale erano ordinatamente disposte le bottiglie di brandy, whisky e amari, più quella immancabile del mitico Vov, il liquore d’uovo, che le due amiche degustavano ogni tanto, in piccoli bicchierini di cristallo, col permesso della mamma di Laura. Nell’angolo disco, lo stereo era sormontato da un impianto luci da discoteca, luci psichedeliche colorate, con tanto di palla girevole. A quell’epoca furoreggiavano la discomusic e i cantautori impegnati, sul genere di Guccini, De Gregori, Bennato e via dicendo. Erano i tempi delle radio libere, le prime. Nella loro città ne spadroneggiavano due, che si facevano una concorrenza spietata. Sarebbe stato in una di quelle che Lalla avrebbe incontrato il suo futuro marito, che, all’epoca, faceva il disc-jokey.
Una volta, mentre erano sedute comodamente sul divano, Lalla saltò fuori col discorso della telecamera. Confidò all’amica di sentirsi osservata continuamente, mentre era sola in casa, come se una telecamera nascosta spiasse ogni sua mossa, anche nei momenti più intimi. E questo fatto la faceva sentire fortemente a disagio. Con sua somma sorpresa, Laura le rivelò che la stessa cosa accadeva anche a lei, da parecchio tempo. Ebbero la sensazione di essere osservate entrambe anche in quel preciso istante e furono scosse da un brivido, nella percezione comune.
<<A volte ho come l’impressione che qualcosa di immateriale esca dalla mia schiena e si posizioni proprio alle mie spalle. Mi sembra di avvertirla fisicamente questa presenza e sono tutta un brivido di paura>>, disse Lalla. <<E’ una sensazione orribile. Ho come l’impressione che si tratti di una presenza maligna, di uno spirito cattivo che si è impossessato di me, che entra ed esce dal mio corpo come e quando vuole. E io non mi posso liberare di lui>>, proseguì.
Laura la guardava con tanto d’occhi: quella cosa, a lei, non era mai accaduta.
<<Ho paura di avere il diavolo in corpo. Credi che questo sia possibile?>>, domandò, sperando che l’altra avesse la risposta pronta, nel dire no. Ma Laura tacque.
Forse era colpa di tutte quelle storie assurde che le aveva sempre raccontato nonna Ines. Forse era colpa delle sedute spiritiche. O, forse, era tutta colpa della sua fervida immaginazione. Forse. Fatto stava che , negli ultimi tempi, Lalla aveva sempre più paura di restare sola. Così come aveva sempre più paura del buio, la notte, quando si trovava sola nel suo letto. Almeno da piccola dormiva insieme al suo grosso cagnone di peluche: Si chiamava Elco quel grosso cane dal pelo azzurro ed era più lungo di lei.


UN’ESPERIENZA TERRIFICANTE

L’odore dell’olio rosso aveva impregnato di sé tutta la sala, così come di sé aveva impregnato il locale il profumo della cera per parquet. Il pavimento in legno scricchiolava sotto i passi. Lalla prese posizione al tavolino, al centro della stanza. Di fianco a lei, l’amica e compagna di scuola, Laura, con cui si recava spesso a far visita alla nonna. Nonna Ines andò a chiudere le imposte delle finestre, quelle interne, perché le esterne erano già state chiuse in precedenza. La sala piombò nell’oscurità. Ci volle qualche minuto perché gli occhi si abituassero al buio.
Le porte in legno laccato dell’immenso locale erano chiuse. Solo un debole fascio di luce filtrava da sotto e attraverso il buco della serratura, permettendo alle tre donne di distinguere le proprie sagome e quelle della mobilia. Finalmente, anche la nonna si accomodò. Lalla, Laura e nonna Ines unirono le dita della mani in una catena, aprendo bene i palmi, posati sul treppiedi.
La nonna cominciò: <<Spirito, se ci sei, batti un colpo!>>. E, dopo qualche attimo di silenziosa attesa, il tavolino cominciò a muoversi, sollevandosi lentamente su un solo piede. Lalla era affascinata da quel rituale. Aveva sempre sospettato che fosse la nonna a farlo muovere, ma non era mai riuscita a scoprire come. <<Nonna, sei tu>>, diceva. E la nonna rideva, mentre diceva di no.
Nonna Ines, nelle sue mille stranezze, si proclamava dotata di poteri paranormali. Faceva le carte e leggeva la mano. Raccontava episodi della sua vita passata, profezie che si erano immancabilmente avverate, anche le più terribili e Lalla restava ad ascoltare rapita quello che la nonna diceva. Una volta, una zingara aveva suonato alla sua porta e le aveva chiesto di farla entrare. Lei aveva rifiutato, perché gli zingari portano solo disgrazie, diceva. Quella, allora, aveva forzato la porta e ne era nato un corpo a corpo in cui la nonna aveva avuto la meglio, riuscendo a chiudere la zingara fuori di casa. A quel punto, l’altra le aveva tirato dietro mille maledizioni e se n’era andata, dicendo che le sarebbe successa una disgrazia terribile. Erano circa le undici del mattino.
Quel giorno, all’ora di pranzo, lo zio Antonio non rientrò. La nonna dovette aspettarlo invano. Al suo posto, giunse un compagno di lavoro, per comunicarle che il figlio aveva avuto un incidente ed era morto. La nonna, da quel giorno, prese a odiare tutti gli zingari del mondo. <<Gli zingari sono tutti cattivi: stai sempre alla larga da loro!>>, così le diceva ogni volta.
Ma non erano solo loro a creare paranoie alla nonna. Nonna Ines era una donna superstiziosissima: <<Stai attenta a non rovesciare il sale! Non rompere lo specchio! Attenta al gatto nero! Non passare sotto la scala! Non andare mai a trovare una donna il primo giorno dell’anno>>  e via discorrendo.
E poi aveva il pallino delle sedute spiritiche. Lalla ne aveva fatte tante sin da piccola, insieme alla mamma e alla zia, che ridevano come matte, ogni volta che la nonna pronunciava la formula Spirito, se ci sei, batti un colpo! E la nonna si arrabbiava. Gli spiriti non vogliono che si rida di loro! Ma quelle ridevano ancora di più. La nonna contava su Lalla, per la riuscita di una seduta, perché lei ci metteva l’anima, nell’attesa della risposta, perché lei ci credeva con tutta se stessa negli spiriti, perché lei era attratta dall’occulto e godeva esageratamente nell’avere paura. E la nonna questo lo sapeva. Lo sapeva benissimo. Ma, quella volta, lo scherzo, se di scherzo si era trattato, fu pesantissimo e Lalla decise di chiudere, chiudere per sempre.
Se ne stavano sedute tutte e tre al buio, ad invocare lo spirito e quello venne. Venne e il tavolino prese a muoversi. Rispondeva alle loro domande, battendo colpi a terra: una volta per il sì, due per il no. Andarono avanti così per una mezz’ora buona, fino a quando il tavolino smise di muoversi. Inutile tentare di richiamarlo: sembrava essersi dileguato nel nulla più assoluto. Ma la nonna invitò le ragazze a chiamarlo di nuovo.
Cominciò Laura: niente. Riprovò: niente. Ancora: niente. Poi fu la volta di Lalla. <<Prova tu!>>, la invitò la nonna. <<Sei un temperamento forte: forse ti risponderà.>>
Ma non appena Lalla ebbe pronunciata la formula, l’imposta interna di una finestra si spalancò, sbattendo violentemente contro la parete, con un grande frastuono. Lalla e l’amica gridarono terrorizzate, balzando in piedi e abbracciandosi per farsi coraggio, mentre la nonna rideva a crepapelle.
La luce del sole prese ad entrare nella stanza.
Quella fu l’ultima volta che Lalla si accostò a quel tavolino per molti e molti anni ancora.


RADIO VARESE

Lalla frequentava le scuole medie, quando nacquero le prime radio libere. La prima in assoluto fu Radio Varese.
La musica che veniva trasmessa era costituita quasi esclusivamente da canzoni di cantautori italiani impegnati politicamente, tipo Guccini, De Gregori, Finardi, Venditti, ma furoreggiavano anche le canzoni di Cocciante (la bellissima Margherita), di Baglioni, di Bennato e Branduardi. Quelle che andavano per la maggiore erano Compagno di scuola, L’Avvelenata (censurata per certi termini scurrili), Piccolo grande amore, Rimmel.
Era il tempo della musica a richiesta, delle dediche all’amica o all'amico del cuore.
Lalla aveva quattordici anni, quando conobbe un gruppo di ragazzi diciottenni, impegnati come DJ in radio e accettò l’invito di fare visita alla stazione radiofonica durante le trasmissioni: ne rimase molto colpita. Era un mondo davvero affascinante.
Insieme alle amiche sue coetanee e ad alcune più grandi, cominciò a frequentare quell’ambiente.
I pomeriggi d’estate, il gruppo di ragazzi si recava nel parco Toeplitz, dove Lalla aveva trascorso la sua infanzia, con la chitarra, per sdraiarsi nel grande prato e suonare le canzoni più belle dell’epoca, mentre le ragazze intonavano cori. Uno dei ragazzi era il garzone dell’idraulico, quel biondino con la vespa verde, per cui Lalla si era presa una cotta anni addietro. E proprio lui, in quel prato, tra accordi di chitarra, le diede il primo bacio.


IL PATTINAGGIO

L’inverno era triste, col suo freddo pungente e i pomeriggi bui, ma un evento inaspettato portò in città una ventata di allegria: la nascita di una pista di pattinaggio all’aperto.
Lalla e gli amici si buttarono a capofitto nella nuova avventura.
Era fantastico scivolare veloci sul ghiaccio, con l’aria pungente sulla faccia. Il gruppo si divertiva a pattinare a coppie e a fare catene: dieci/quindici ragazzi tutti per mano, che correvano veloci, finché il primo della fila bloccava di colpo e gli altri volavano letteralmente sul ghiaccio, con l’ultimo che immancabilmente andava a schiantarsi contro la balaustra di legno o planava per terra, mentre la sorveglianza annunciava dall’altoparlante: "ricordiamo alla clientela che e’ severamente vietato fare catene."
Lalla adorava pattinare, ma ancora di più adorava rientrare a casa la sera, stanca morta, nel buio della via, con i pattini in spalla, abbracciata agli amici, cantando a squarciagola stupide canzonette.
Erano un bel gruppo di ragazzi dai tredici ai diciannove anni.
Una volta, uno di loro, Danilo, invidioso del fatto che Lalla non cadesse mai, nonostante avesse appena imparato a pattinare, pensò bene di farle uno scherzo e le fece lo sgambetto: Lalla cadde e si ruppe il coccige. Fu una brutta esperienza, che la costrinse a tre mesi di dolori alla schiena e di sedute col cuscino anche a scuola. Fu anche la fine delle pattinate, perché mamma Marisa decise di far sparire i pattini e le proibì di tornare sul ghiaccio.


GLI ANNI DELLE SUPERIORI: IL PRIMO AMORE

E giunsero gli anni delle superiori.
Liceo Classico “Ernesto Cairoli”, quarta ginnasio corso F. La classe di Lalla riformava il corso, di cui, fino ad allora, era rimasta solo la terza liceo.
I compagni erano quasi tutti nuovi, eccetto due amiche, che la seguivano dalla prima elementare, Laura e Licia. L’inizio fu piuttosto traumatico: l’ambiente, molto più grande di quello delle medie, incuteva una certa soggezione: i lunghi corridoi tetri col pavimento in piastrelle grigiastre e le pareti verdine, il pavimento cigolante del piano superiore, quello del corso B, il corso d’elite, dove stavano i figli di papà, le aule immense e fredde, spoglie di arredi e cartelloni e i ragazzi grandi. Quelli sì che facevano paura! Lalla temeva gli approcci cretini dei diciottenni di terza, i nonni, che si dilettavano a fare scherzi idioti, tanto ai ragazzi quanto alle ragazze. Sbruffoni che alzavano le gonne alle femmine e le seguivano nei bagni per docciarle nella maglietta con palloncini riempiti d’acqua, mentre ai  compagni maschi spettava lo stesso trattamento, ma nei pantaloni; spintoni nei corridoi e lungo le scale, ricatti del tipo o mi porti questo e quest’altro o finisci male e altre idiozie del genere.
Lalla tornava a casa angosciata, con la voglia di non andare più a scuola.
E il greco! Oddio, il greco! Che tragedia! Quello era il tormento maggiore: Lalla lo odiava con tutte le sue forze. Le desinenze, gli spiriti, gli accenti, gli allungamenti organici, le radici introvabili dei verbi e le traduzioni, quelle incomprensibili traduzioni che Lalla non riusciva mai a capire! Se c’era un termine con più significati, si poteva star certi che lei avrebbe colto quello sbagliato al cento per cento. Invidiava quei compagni che traducevano al volo, che non facevano nessuna fatica. Lei conosceva a memoria tutte le regole della grammatica, ma poi non era capace di metterle in pratica. Cinque anni di liceo e cinque anni di lezioni private di greco senza alcun risultato.
La crisi della scuola superiore venne superata nel momento in cui conobbe Tommaso.
Tommaso era un ragazzo di seconda liceo, un ragazzo molto esuberante, la croce di insegnanti e bidelli. Lalla fu colpita dal suo atteggiamento sbruffone e dal suo sorriso dolcissimo. Sorrideva anche con gli occhi, nascosti dietro un paio di lenti. Aveva capelli biondo ramato, un fisico massiccio, da atleta, ma non era molto alto. A scuola era conosciuto come uno dei più casinisti, insieme ad un altro gruppetto, del quale, stranamente, faceva parte anche un certo Alfredo, un secchione con l’aria del bravo ragazzo, quale, in realtà era.
Lalla si era perdutamente innamorata di Tommaso e voleva conoscerlo a tutti i costi. La sua classe era all’ala opposta dell’edificio e riusciva a vederlo solo durante l’intervallo, quando tutti gli studenti si ammassavano nei corridoi e si spostavano da un lato all’altro, per andare a trovare i compagni di altre classi.
Anche Danilo, il ragazzo dello sgambetto, frequentava quella scuola e conosceva Tommaso. Lalla gli chiese di presentarglielo e fu così che lo conobbe. Tommaso, tuttavia, non sembrava essere minimamente interessato a lei: era troppo impegnato politicamente, militante di lotta continua, e legatissimo alla sua ristretta cerchia di amici simili a lui, della quale lei non avrebbe mai potuto far parte. Tuttavia, dietro insistenza di Lalla, decise di provare e di mettersi insieme a lei. Provenivano da due mondi completamente diversi: lei “sporca borghese”, come la definivano, sempre vestita bene, fine, educata, di buona famiglia; lui quasi un ragazzo di strada, che frequentava sbandati e che si era avvicinato al mondo degli stupefacenti. E per amor suo, Lalla sarebbe cambiata, avrebbe rinnegato il suo mondo, avrebbe dismesso gli abiti della ragazza per bene e sarebbe diventata una di loro.
Quello che Lalla odiava di più delle attività parascolastiche erano le assemblee studentesche: le trovava sterili, inutili, noiose e stupide, una totale perdita di tempo. L’unico lato positivo era che sottraevano tempo alle ore di lezione. Non capiva come tutti quei compagni si affannassero come assatanati a sostenere idee e ideali politici di cui sapevano poco o nulla, se non quello che sentivano dire dai grandi, discutendo di avvenimenti del mondo e della politica. C’erano alcuni che si scaldavano talmente, da arrivare quasi alle mani, quando qualcuno osava contraddirli.       
Finché c’era Tommaso, Lalla accettava di buon grado di frequentare le assemblee, ma non appena lui ebbe superato gli esami di maturità, decise di abbandonare quella pratica inutile e preferì rimanere in classe, unica tra tutti i suoi compagni, a svolgere i compiti  per il giorno seguente.
Sempre per amore di Tommaso, Lalla trascorse gli anni del ginnasio a frequentare il collettivo pomeridiano, una specie di assemblea ristretta di studenti di sinistra che si riunivano per discutere dei problemi della scuola e della società. Altra stupida perdita di tempo che abbandonò molto presto, nonostante lui.
L’amore per Tommaso stava trasformando Lalla in una persona diversa da quella che era sempre stata. Trascorreva i pomeriggi in centro con i nuovi amici, nel retro del bar frequentato dalla gioventù di sinistra della città, che a quell’epoca era proprio divisa in due fazioni: sinistra e destra. I due principali bar del centro erano il Pini, frequentato da giovani di destra, e il Garibaldino, frequentato dalla fazione opposta. Capitava spesso che insorgessero vere e proprie lotte politiche tra i gruppi, culminanti in pestaggi violenti, che terminavano sempre con l’arrivo della polizia, che caricava i partecipanti sulla camionetta e li portava in questura. Tommaso e i suoi c’erano stati già diverse volte.
I ragazzi di destra erano particolarmente violenti, guidati da un capogruppo pericoloso e aggressivo. Si presentavano in centro armati di manganelli e foulard neri con cui si coprivano il viso, per non essere riconosciuti, e poi caricavano il gruppo della fazione opposta e giù botte.
Una volta, Lalla si trovò coinvolta nel bel mezzo di una rissa, per il solo fatto di essere la ragazza di Tommaso e con lui e altri ragazzi del gruppo, dovette fuggire a gambe levate e rifugiarsi in un locale, fino a far disperdere le proprie tracce.
I genitori di Lalla erano seriamente preoccupati e facevano di tutto per convincere la figlia ad uscire dal gruppo e trovarsi un nuovo ragazzo, uno di buona famiglia, con la testa a posto, serio e di sani principi. Ma Lalla non ne voleva sapere: lei amava Tommaso e basta. Nonna Ines era terrorizzata: sognava la nipote abbindolata da strani individui, che la soggiogavano e la inducevano a drogarsi e riferiva al babbo le sue angosce. Ma Lalla sapeva cos’era la droga, sapeva che era qualcosa da cui stare lontano, perché rovinava la vita per sempre. E poi li vedeva quei ragazzi, ridotti a delle larve umane, col cervello in pappa. Una sera, durante una festa a cui aveva partecipato insieme a Tommaso e al suo gruppo, vide uno di loro prepararsi una dose col cucchiaino, il limone e l’accendino. Rimase impressionata nel vedere l’amico che si iniettava la roba in vena. Tommaso le disse: <<Non guardare>>, ma lei non riuscì a voltare la faccia dall’altra parte. E, soprattutto, non poté fare a meno di domandarsi se anche lui lo facesse. <<No, fumo solo roba>>, le aveva risposto. Invece, più avanti, venne a sapere da un’amica che si faceva anche di acidi e coca.
Nel delirio collettivo di tutta quella gente spinellata e fatta, Lalla si sentiva diversa, ma non poteva fare a meno di loro, se voleva continuare a vedere Tommaso e lei voleva continuare a vederlo, lo voleva con tutta se stessa.
Dopo alcuni mesi che stavano insieme, però, Tommaso iniziò a dare segni di insofferenza nei suoi confronti: le dava buca agli appuntamenti, la snobbava, evitava di incontrarla nei corridoi a scuola e non si faceva trovare al telefono. Un pomeriggio in cui si sarebbero dovuti vedere e andare in centro insieme, Lalla ricevette una telefonata da un amico di Tommy, che le spiegava che aveva avuto una brutta discussione con sua madre, per cui non lo lasciava uscire. Lalla credette a quelle parole, conoscendo la madre del suo ragazzo. Era una donna strana, che costringeva il figlio a raccogliere le foglie secche in autunno, nei boschi intorno a casa. Tommaso ne raccoglieva interi sacchi e Lalla lo aiutava. Li riportavano a casa e li deponevano in giardino. Lalla non aveva mai capito a cosa servissero tutte quelle foglie, né mai aveva avuto il coraggio di chiederglielo.
Tommaso doveva lavare i piatti tutti i giorni, riordinare la sua stanza e spesso anche il resto della casa. Viveva solo con la madre, divisa dal marito, mentre la sorella se n’era andata di casa ormai da diversi anni.
Lalla adorava trascorrere i pomeriggi d’inverno a casa da lui, seduti sul divano in velluto verde, in silenzio, uno affianco all’altra, ad aspettare che facesse buio. Rimanevano così per ore, davanti alla finestra aperta, ad osservare le ombre della sera che calavano rapide sul mondo, senza accendere una sola luce. Vedevano il cielo tingersi di rosso, poi di viola, infine di blu cobalto, finché tutto diventava nero, là fuori, eccetto le luci dei lampioni che illuminavano le strade della città. E per lei quella era la vita, quella la felicità: osservare scendere la notte accanto al ragazzo che amava, nel silenzio più assoluto di quella stanza, finché non arrivava l’ora di tornare a casa.
Tommaso non la baciava mai: la salutava con un buffetto sulla guancia e l’accompagnava fuori, fino al motorino, poi la guardava andare via, fino a che scompariva in fondo alla strada. E Lalla tornava a casa con Tommaso nel cuore, a tenerle compagnia. La loro storia durò quasi due anni, tra tira e molla da parte del ragazzo, che ora la voleva, ora no. E lei sempre pronta a tornare da lui ogni volta, fino a quella in cui lui decise di scomparire del tutto, senza una sola parola.
Quel giorno, all’intervallo, Lalla si era recata sul pianerottolo della classe di Tommy, come ogni mattina, ma lui non c’era. Le venne incontro una compagna di classe, che le domandò: <<Sei tu Lalla?>>.
<<Sì>>, rispose. <<Sono io>>.    
<<Mi chiamo Doriana>>,  riprese l’altra. <<Ho un messaggio da parte di Tommaso: dice che non se la sente più di stare con te, che ti lascia.>>          
E glielo diceva così? Fatto dire da un’altra persona, una perfetta estranea per lei?
<<Non è vero. Non ci credo>>,  ribatté Lalla. <<Dov’è lui? Voglio parlargli.>>     
<<Non è venuto a scuola stamattina.>>
Era una bugia, una sporca bugia. Lalla entrò nella classe di Tommy, ma lui non c’era. Uscì, si guardò attorno con le lacrime che le salivano agli occhi. Incrociò lo sguardo di Doriana. <<Mi dispiace>>, disse quella. E le porse un fazzoletto.
Come aveva potuto lasciarla in quel modo? E perché, poi? Non era successo nulla negli ultimi giorni che facesse presagire una simile intenzione!
Lalla si tormentò per giorni. Ogni mattina si presentava nella terza in cerca di Tommaso, ma la risposta dei compagni alla sua domanda era sempre la stessa: Tommaso oggi non è venuto a scuola.
Ma che cosa stava succedendo? Il telefono di casa suonava sempre a vuoto. Lalla decise di andare da lui, ma, quando suonò il campanello, non rispose nessuno e nessuno aprì.
Come poteva avere abbandonato la scuola a pochi mesi dalla maturità? Era forse impazzito? Magari era successo qualcosa con la madre e se n’era andato di casa! Magari, sì, però, però c’era un ultimo tentativo da fare e lei sapeva dove poterlo trovare.
Si recò in centro, al bar del Garibaldino. Aveva il cuore in gola: sapeva che la verità poteva essere dietro quella porta, la porta che separava la sala principale dalla saletta secondaria. E varcò la soglia. Il suo sguardo incrociò quello degli amici seduti al tavolino, davanti ad una tazza di cioccolata calda e, tra loro, Tommaso. Lo fissò dritto in viso, muta e ferma. Lui la fissò a sua volta, nel silenzio più assoluto. Lalla aveva compreso da quello sguardo, con immenso dolore, che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto.
Uscì dal locale con un dolore acuto nel petto e tanta voglia di piangere, di piangere in mezzo all’indifferenza della gente, che le passava accanto in quella sera d’inverno, chiusa nel suo giaccone di velluto marrone. E avrebbe voluto gridare con tutta se stessa, imprecare contro quel ragazzo che se n’era rimasto là, dietro quel tavolino del bar, senza nemmeno cercare di fermarla, per non lasciarla andare via, via per sempre.
Lalla trascorse mesi in uno stato depressivo. Piangeva quasi ogni giorno, mangiava poco, non aveva più voglia di studiare e non usciva nemmeno più con gli amici. I genitori erano molto preoccupati, anche se sollevati, perché Tommaso non era il ragazzo che faceva per lei: così avevano sempre sostenuto.


RADIO EUROPA: UN NUOVO AMORE

Trascorse quasi un anno. Lalla aveva ripreso ad uscire con gli amici di un tempo, quelli del pattinaggio, e ormai si era fatta una ragione di quella storia ormai finita, anche se Tommy era sempre nei suoi pensieri, ma il suo ricordo non faceva più così male.
Un pomeriggio delle vacanze di Natale, al ritorno da una festa con i compagni di classe, nella megavilla di uno di loro, a casa di Lalla squillò il telefono: era Doriano, un amico di vecchia data, perso di vista da tempo. La invitava ad uscire con lui una sera, perché voleva presentarle un amico. Lalla non ne aveva nessuna voglia, ma Doriano insistette.
<<Di chi si tratta?>>, domandò lei.
<<Non vuole che ti dica il suo nome. Lo scoprirai quando arriveremo.>>
<<E dove dobbiamo andare?>>, si interessò.
<<Ti porto a Radio Europa.>>
Radio Europa, l’altra radio libera della città, quella che stava riscuotendo il maggior numero di ascolti.
<<E che ci facciamo in quel posto? Perché proprio lì?>>, continuò.
<<Perché lui fa il DJ>>, rispose l’amico.
<<E dimmi, come mai vorrebbe conoscermi? Come sa chi sono?>>
<<Ti ha vista qualche volta e gli piaci. Non vuole nulla da te, solo vederti e parlarti. Se poi non ti va, non ti porterò più.>>
Lalla era perplessa: nei suoi pensieri c’era un solo nome e nel suo cuore pure, scolpito a lettere di fuoco: Tommaso. Decise di incontrare prima Doriano da sola, per raccontargli la sua storia con Tommy e quanto avesse faticato per uscirne, senza esserci ancora completamente riuscita. <<La ferita è ancora aperta, Dodo. Non mi sento di uscire con un altro.>>
<<Vuoi scherzare? Nessuno ti chiede di uscire con lui: ci andiamo insieme all’appuntamento.>>
Lalla rifletté un momento.
<<Pensaci! Non puoi continuare a vivere di ricordi. Potrebbe farti bene, infondo, non credi?>>
<<E va bene. Però... però mi devi promettere che non mi lascerai da sola con questo tizio nemmeno un momento. D’accordo? E che resteremo lì poco.>>
Doriano sorrise: <<Promesso.>>
La sera seguente, passò a prenderla alle nove. Lalla non si era vestita elegante per l’occasione: indossava uno scamiciato marrone senza maniche, un maglioncino beige e un paio di stivali senza tacco, marroni.
Non appena fecero il loro ingresso nel locale, il misterioso ragazzo le apparve davanti: era seduto dietro un tavolo rotondo di cristallo, davanti ad un block notes, su cui scriveva le dediche che arrivavano dalle telefonate, che lui doveva inviare poi nella cabina di trasmissione al DJ di turno. Quando Lalla entrò, il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei, che sorrise imbarazzata, cercando la vicinanza di Doriano, quasi a volersi proteggere. Il giovane si alzò dalla sua postazione e si fece incontro ai due, poi tese la mano alla ragazza. <<Mi chiamo Dino>>, disse.
<<Piacere, Lalla>>, rispose lei. Lo squadrò da capo a piedi: indossava un maglione grigio, di quelli fatti a mano, scollato “V”, un paio di pantaloni di velluto color ruggine, a zampa, un paio di stivaletti bordeaux a punta e sul naso, un paio di Rayban dalle lenti azzurre. "Che tamarro!",  pensò tra sé e gli sorrise.
La serata trascorse tra le chiacchiere dei due ragazzi, perché Lalla aveva ben poco da dire a quell’estraneo che l’aveva voluta lì, dove lei non voleva essere. Finse di essere interessata all’attività della radio e fece qualche domanda di circostanza. A una certa ora domandò a Doriano di riaccompagnarla a casa, accampando la scusa che era stanca. L’amico rispettò i patti. Salutarono Dino, lasciandolo con un ci si vede e uscirono dal locale.
Mentre salivano sulla mini blu, Doriano le domandò: <<Allora? Che ne pensi? Che impressione ti ha fatto?>>
Lalla sgranò tanto d’occhi: <<Mi prendi in giro? Non voglio tornare mai più lì dentro!>>, sentenziò categorica. <<Non è proprio il mio tipo. Assolutamente. Con quell’aria da intellettuale bravo ragazzo, tutto serio. Per favore!>>
<<Allora, cosa gli devo dire, se mi chiede di te?>>
<<Digli pure che non intendo più vederlo. Anzi, digli che ho già il ragazzo, così si mette il cuore in pace.>>
<<Puoi sempre uscire con noi qualche volta, così, in amicizia!>>, ribatté l’altro.
<<Senti, Doriano, è inutile, non attacca: lui non mi piace e non vedo perché dovrei uscire con voi, sapendo di piacergli>>. Fece una pausa. <<E poi... e poi lo sai già.>>
<<Oh, sì, certo: e poi tu sei innamorata di Tommaso, anche se lui non si ricorda nemmeno più che tu esisti.>>
Non importava se Tommaso non si ricordava più di lei: Lalla lo amava ancora e sentiva nel suo profondo che lui sarebbe tornato prima o poi, avrebbe compreso il suo sbaglio e sarebbe tornato da lei.
Nei giorni seguenti, dietro insistenza di Doriano, Lalla tornò in radio. Rivide Dino e, giorno dopo giorno, cominciò a conoscerlo e ad apprezzarlo come persona: infondo non era poi così male. Cominciò a trovare piacevole parlare con lui e starlo ad ascoltare. Uscivano sempre in compagnia. Nel giro di poco tempo, Lalla era diventata amica dei vari DJ e aveva cominciato ad aiutare i ragazzi a prendere le dediche, dalle numerose telefonate che arrivavano in radio. Col passare delle settimane, gli ascoltatori che telefonavano riconoscevano la sua voce e alcuni di loro si intrattenevano a chiacchierare con lei. Quell’ambiente cominciava a piacerle e così pure la gente che lo frequentava, Dino compreso.
Una sera, il gruppo della radio decise di uscire a mangiare una pizza e invitò anche lei, che accettò di buon grado. Doriano era sempre il suo accompagnatore, perché lei non si sentiva ancora pronta per salire sull’auto di Dino, non sola con lui, che, ormai, non nascondeva più le sue intenzioni.
<<Dino vorrebbe che tu diventassi la sua ragazza>>, le disse l’amico. << Me l’ha confidato l’altra sera.>>
<<Non mi sorprende>>, rispose lei.<<L’avevo capito.>>
<<E tu?>>
<<Non lo so, ci devo pensare. Non sono ancora pronta.>> C’era qualcosa che la frenava nei confronti di quel ragazzo, forse la sua serietà, forse il suo essere troppo maturo e troppo uomo per lei. O forse c’era dell’altro. Chissà?  

<<Mio fratello dà una festa domani sera, ci verrai?>> Doriano era passato a fare visita a Lalla per invitarla. <<Ci saremo tutti noi della radio.>>
<<Sì, perché no?>> Ma non fece in tempo a terminare la frase che il telefono squillò. <<Pronto?>>
<<Lalla...>>
Dio, quella voce! L’aveva riconosciuta: era Aldo, l’amico di Tommaso. Che cosa poteva mai volere da lei?
<<Sì, sono io>>, rispose col cuore in gola. Doriano era accanto a lei e intuì che qualcosa stava sconvolgendo la mente dell’amica, perché la sua espressione mutò di colpo.
<<Ti chiamo per conto di Tommaso.>>
Ecco, un classico: come al solito non aveva il coraggio di esporsi in prima persona.
Doriano la guardò negli occhi e bisbigliò: <<E’ lui, vero?>>
Lalla annuì con un cenno del capo. L’amico avvicinò l’orecchio al ricevitore e Lalla lasciò che ascoltasse la conversazione.
<<Che cosa vuole?>>
<<Vorrebbe invitarti ad una festa tra amici, domani sera.>>
Ci fu un istante di silenzio. <<Ad una festa, domani sera?… E lui ha il coraggio di farsi vivo dopo un anno per invitarmi ad una festa e mi fa chiamare da te per questo?>> Il tono della sua voce era alquanto alterato.
<<Digli di no. Digli di no!>>, le bisbigliò all’orecchio Doriano.
Invece lei avrebbe voluto urlare di gioia e gridargli Sì sì sì sììì…!!!
<<Non saprei. Ci devo pensare. E’ passato tanto tempo. E poi? Quanto durerebbe questa volta? Un mese, forse due? Poi punto e a capo?>>
<<No, Lalla, questa volta è diverso: lui ha capito di avere sbagliato. Ci tiene veramente a te.>>
Le sfuggì un sorrisetto ironico. <<Non lo so, davvero.>>
<<Facciamo così: ti faccio chiamare da lui domattina e gli dirai cos’hai deciso. Va bene?>>
<<Va bene. Sì, ciao.>>
Doriano le puntò gli occhi dritti in faccia: <<Se gli dici di sì, non sono più tuo amico. Non scherzo, Lalla. Quello ti sta prendendo in giro per l’ennesima volta. Ti farà soffrire ancora e ti ritroverai sola. Pensaci bene e domani digli di no.>>
Fu il no più difficile che avesse mai pronunciato in tutta la sua vita.
La sera seguente nevicava che Dio la mandava. La città era ricoperta da venti centimetri abbondanti di manto bianco. Doriano la chiamò per avvisarla che sarebbe passato Dino a prenderla, poiché lui era in difficoltà con la macchina.
Accidenti! E così sarebbe rimasta sola con lui per la prima volta.
Non sapeva perché, ma si sentiva fortemente a disagio e aveva quasi paura. Dino sapeva di Tommaso, lei gliene aveva parlato, quindi conosceva anche i suoi sentimenti e non avrebbe osato certamente farle delle avances. E poi lui era appena uscito da una storia dolorosa con una modella romana: una bella batosta anche quella, da quanto aveva potuto capire. La romana, in radio, la conoscevano tutti, perché lui, un giorno, ce l’aveva portata, e, quando parlavano tra di loro, la chiamavano la Madonna, tanto era bella.
Lalla si domandava cosa mai avesse visto in lei un ragazzo che fino a poco tempo prima aveva tra le mani una dea. Si diceva che fosse altissima, con lunghi capelli biondi, ricci e selvaggi, con due splendidi occhi azzurri e una personalità prorompente e trainante.
Lalla, invece, era un’adolescente riservata, con una personalità ancora acerba, piuttosto piccola di statura e non certo bella come l’altra.
<<E’ il tuo sguardo che mi ha colpito>>, le aveva detto Dino una sera. <<Il tuo sguardo carico di interrogativi e profondo tanto da entrarti dentro.>> Diceva di averla notata una sera d’estate, mentre sedeva al tavolino di un bar insieme a Doriano e altri amici. C’era anche lui, quella sera, seduto qualche tavolo più in là. Ma lei non se n’era accorta. Eppure lo aveva guardato.
Dino arrivò con qualche minuto di ritardo a casa sua: aveva montato le catene, perché le strade erano piuttosto impraticabili. Per l’occasione, Lalla si era vestita elegante e truccata bene. Aveva anche raccolto i capelli. Quando la vide, Dino rimase molto colpito e non riuscì a dire nient’altro se non Andiamo?
La festa era in un ampio locale, lo studio fotografico del fratello di Dodo, sgomberato di tutto il materiale, per far spazio a tavoli e stereo. Luci psichedeliche pendevano dal soffitto. L’atmosfera era gradevole. C’erano tutti i ragazzi e le ragazze della radio. La musica suonava le canzoni dei Bee Gees. Al momento del lento Too Mutch Even, Dino le chiese di ballare. Le cinse la vita con le braccia, mentre lei gli pose le sue intorno al collo. Non si accorsero che stavano ancora ballando anche quando la canzone era finita. Gli amici risero e dovettero farglielo notare.
Che cos’era quello strano mal di pancia che Lalla provava in quel momento?
Verso la una, Doriano le chiese se volesse andare a casa, che era disposto a riaccompagnarla. Lalla guardò Dino. Non si erano mai staccati per tutta la sera: perché farlo proprio ora? Lui le lesse nel pensiero: <<L’accompagno io>>, disse. E, quando arrivarono sotto casa, la baciò.
La loro storia ebbe inizio quell’inverno, mentre Lucio Battisti cantava Una Donna Per Amico, colonna sonora dell’intera  stagione. E Lalla voleva essere per lui una sorta di amico, un amico un po’ speciale, ma infondo solo quello e niente più.
Lalla non avrebbe scommesso un solo centesimo su loro due...
Ma che disastro io mi maledico, ho scelto te, una donna, per amico, ma il mio mestiere è vivere la vita, che sia di tutti i giorni o sconosciuta, ti amo forte e debole compagna, che qualche volta impara e a volte insegna...
A forza di frequentare l’ambiente della radio e di assistere i DJ nelle scelta dei dischi e nella composizione delle dediche, Lalla era diventata un’esperta di musica e una componente naturale del gruppo, tanto che un giorno il proprietario della stazione radiofonica le propose di trasmettere in prima serata affiancata da Dino. <<Sareste una bella accoppiata!>>, aveva detto. In effetti i due formavano ormai una coppia molto affiatata. Fu così che accettò. Condussero per un’intera stagione un programma serale di musica pop della durata di due ore e mezza, intervallato da telefonate degli ascoltatori e da battute che i due si scambiavano con molta scioltezza. Il programma era molto seguito e il capo propose loro di portarlo avanti anche per la stagione successiva. Ma ciò a cui mirava Lalla era la conduzione della Musica a Richiesta, il programma del sabato pomeriggio, uno dei più gettonati. E nel giro di breve tempo, arrivò dove voleva.


BULIMIA E ANORESSIA

Nonna Ines non era molto felice dell’unione di Lalla con Dino: sosteneva che quella relazione l’aveva trasformata, che non era più la ragazzina spensierata di un tempo.
La verità era che Lalla si era spenta da tempo, perché soffriva di quel malessere tipico dell’età adolescenziale. Dino non c’entrava niente, così come Tommaso non aveva contribuito a renderla più triste di quanto già non fosse per conto suo. Ma la nonna sembrava non comprendere, così come non comprendevano i suoi genitori, che facevano di tutto perché Lalla cambiasse amicizie e si legasse ad un altro ragazzo. Ma perché le sue scelte non andavano mai bene? Si domandava.         
<<Dino non fa per te: siete troppo diversi>>, continuava a ripeterle il babbo. Insomma, poteva capire Tommaso, che era sbandato, ma Dino era una ragazzo molto serio, di sani principi morali, studiava all’Università e non aveva grilli per la testa. Quale doveva essere, per loro, il tipo giusto per lei? Il figlio di Agnelli, forse?
Il padre insisteva a volerle fare conoscere il figlio di un suo amico, un riccone, belloccio e con un’ottima posizione sociale. <<Ti regalerebbe la luna, se solo gliela chiedessi>>, le diceva. Ma a lei, della luna, non importava proprio niente. Lei voleva sentire battere forte il cuore. Che importava avere un sacco di soldi, da non saper nemmeno come spenderli, se non c’era amore?
<<L’amore prima o poi finisce>>, diceva il babbo. <<Poi restano i problemi da risolvere, le bollette da pagare e tutto il resto. E se mancano i soldi, finisce anche l’affetto. Quello che conta non è essere innamorati, ricordatelo: è il rispetto tra due persone. Quello non deve mai mancare.>> E poi i soldi, naturalmente.
Ma Lalla sognava ancora i due cuori e una capanna e non poteva comprendere certi discorsi a quell’età. Così avversava ogni cosa che suo padre voleva per lei. Non volle mai conoscere il figlio del suo amico e non volle mai trovarsi un compagno ricco. Col tempo, sviluppò anzi, un’avversione per tutto quello che simboleggiava il denaro e il lusso sfrenato. L’opposizione ai genitori cominciò a farsi sentire ben presto su vari fronti, tra cui quello del cibo. Lalla decise di punto in bianco che non avrebbe più mangiato quello che le cucinava sua madre. Iniziò la sua opposizione rifiutandosi di sedersi a tavola con loro e proseguì col suo sciopero della fame. La notte era preda di crampi terribili allo stomaco e si alzava di nascosto a svuotare il frigorifero. Mangiava qualunque cosa le capitasse: risotto avanzato, freddo e rappreso, carne, prosciutto, formaggio. Poi richiudeva il frigo e apriva l’armadietto dei dolci, svuotando intere scatole di biscotti al burro.
Nell’arco di una decina di mesi, Lalla era ingrassata di sedici chili. I genitori si domandavano che cosa le stesse mai  succedendo: eppure non mangiava mai! Già, apparentemente. Ma non potevano non aver capito che si abbuffava di notte, quando loro dormivano.
Un giorno, guardandosi allo specchio, fu come sorpresa di vedere la propria immagine deformata. <<Sono grassa>>, concluse. <<Sono grassa.>>        
Oddio, non era più lei! Possibile che fosse cambiata così tanto? Occorreva correre ai ripari. Fu l’inizio del calvario alimentare, calvario suo e dei suoi genitori. Tentò varie diete, ma inutilmente: la fame ingorda aveva sempre il sopravvento. Allora optò per una soluzione drastica: mangiare e poi svuotarsi di quanto ingurgitato. Avrebbe tanto voluto trovare il coraggio di infilarsi due dita in gola e vomitare ogni volta, subito dopo mangiato, ma non ci riusciva. L’unica via di uscita erano i lassativi. Furono due anni di purganti dopo ogni pasto, assunti di nascosto, acquistati in farmacia con i soldi della paga mensile che le dava il babbo. L’abuso di questi farmaci diede ben presto risultati tragici: Lalla cominciò a soffrire di vari disturbi, tanto da dover ricorrere a cure mediche.
Un giorno, al ritorno dalle vacanze estive, incontrò un’amica che solo tre mesi prima era grassa e allora l’aveva trovata dimagrita paurosamente. Le domandò come avesse fatto e quella le disse che aveva seguito una dieta. Lalla le chiese di portarle a scuola l’opuscolo con gli alimenti e i dosaggi per ognuno di essi e iniziò la dieta a sua volta, stressando sua madre col peso del cibo prima crudo, poi cotto. Perdette undici chili in tre mesi. Allora era felice e soddisfatta della propria immagine allo specchio. Ma il male dell’anima era in agguato. La paura di recuperare il peso perduto e di tornare come prima, la condusse a ridurre ulteriormente le quantità di cibo da ingerire. Fingeva di pesare gli alimenti, ma ne tirava indietro ogni giorno un po’ di più. Era arrivata a ridurre anche l’acqua, perché si era accorta che, dopo avere bevuto, il suo peso aumentava di qualche etto. L’eccessiva magrezza aveva messo in evidenza le costole, le cosce non esistevano quasi più, magre quanto i polpaccetti, il viso sempre più scavato, il bacino faceva bella mostra delle sue ossa attraverso i vestiti. Lalla si sentiva sempre più stanca: si addormentava spesso sui libri, mentre cercava di studiare, senza riuscire nemmeno più a concentrarsi. Aveva sempre freddo, anche quando era estate: in casa, se il sole non entrava dalla finestra aperta a riscaldarle le ossa, doveva sempre indossare un golfino di lana. Continuò così fino a quel giorno, il giorno in cui credette di morire. Ebbe un collasso e venne portata d’urgenza in ospedale, con l’ambulanza che sfrecciava lungo le vie della città a sirene spiegate. Quando riaprì gli occhi, si ritrovò distesa su una barella del Pronto Soccorso, con un ago in vena e una flebo che ciondolava sopra la sua testa. Il babbo era accanto a lei.
<<Mi senti, Lalla?>>
Avrebbe voluto rispondere di sì, ma dalla bocca non le usciva alcun suono. Si sentiva sfinita, senza più un briciolo di energia.       
Un medico si avvicinò alla barella. <<Come va?>>, le domandò. <<Meglio?>>  
Annuì col capo. Il dottore invitò il padre a seguirlo. Lalla li sentì parlare poco distanti da lei: gli stava spiegando che secondo lui Lalla soffriva di un disturbo alimentare chiamato anoressia e che era opportuno fissare un incontro con uno psicologo al più presto. Nel frattempo le avrebbero mandato la psicologa dell’ospedale per un colloquio.
Non ricordò quanto pianse, nel momento in cui cominciò a parlare con lei, ma lo fece fino a prosciugarsi gli occhi.
Ci vollero almeno due anni, perché Lalla riuscisse a venirne fuori, ma ce la fece.


ADDIO, NONNA IS!

Era l’anno della seconda liceo, il penultimo della scuola superiore, quando nonna Ines si ammalò. Lalla la vedeva dimagrire a vista d’occhio. La nonna era diventata inappetente e debole, lei, che aveva sempre cucinato divinamente per tutti, lei, che aveva raccolto le foglie in giardino ogni autunno, caricandosele in un sacco sulle spalle, lei, che aveva sempre fatto tutto da sola fino a poco tempo prima.
<<Nonna, che cos’hai?>>, le domandò una domenica di primavera, andando a farle visita. <<Il babbo mi ha detto che non vuoi più mangiare. Perché?>>
La nonna si chiudeva nelle spalle e non rispondeva. Aveva l’aria triste e affranta. A Lalla parve di rivedere se stessa: che fosse affetta da anoressia anche lei?
<<Vuoi che ti prepari qualcosa io?>>, si offrì. <<Se preferisci vado a comprarti un gelato!>> Ma era tutto inutile. La nonna non era anoressica: era gravemente malata, ma nessuno lo sapeva ancora.
E così anche per lei iniziò un calvario lungo un anno, fatto di visite mediche, di esami e di ricoveri, fino al verdetto definitivo: le rimanevano solo pochi mesi di vita. Cancro del colon, con metastasi al pancreas. Lalla apprese la notizia da sua madre, mentre cantava a squarciagola una canzone nella sua stanza e il babbo piangeva sul balcone della cucina. <<Smettila di cantare, Lalla! La nonna sta morendo e tuo padre è di là che sta male. Come puoi cantare in un momento simile?>>. Lalla si sentì morire: lei non sapeva niente. Nemmeno aveva mai sospettato che la nonna potesse essere ammalata a tal punto. Era fiduciosa, convinta che sarebbe guarita in poco tempo. Smise di cantare, spense la musica e andò in cucina a spiare il dolore del babbo dalla finestra.      

La terza liceo classico era l’anno più impegnativo, con la maturità finale, e Lalla non trovava più tanto tempo per andare a far visita alla nonna. Chiedeva notizie al babbo ogni giorno, ma non si degnava mai di andarla a trovare. Forse aveva paura. Sì, aveva paura di vedere come si era consumata, paura di scoprire che la morte se la stava davvero portando via. Ma un pomeriggio di metà settembre prese il suo motorino e si avviò verso la vecchia villa padronale. Suonò il campanello e venne ad aprirle zia Molly.
<<Lalla...>>. Sembrava sorpresa di vederla.
<<Ciao, zia. Sono passata a trovare la nonna. Come sta?>>
La zia s’incupì: <<Sicura di volerla vedere? Potrebbe anche non riconoscerti.>>
<<Sì, sono sicura.>>
La zia le fece strada verso la camera da letto, dove la nonna giaceva immobile, assistita da un’infermiera, un donnone energico e scorbutico con tanto di baffi.
<<Nonna...>>, bisbigliò, entrando nella stanza. Poi cercò lo sguardo di zia Molly, perché la sostenesse.
<<Inutile!>>, borbottò la bisbetica col camice bianco. <<E’ sedata, imbottita di morfina: non può sentirla. Lei chi è , la nipote?>>
<<Sì, sono la nipote>>, rispose con un filo di voce. Si avvicinò al letto. Quant’era magra la nonna! Ridotta ad un mucchietto d’ossa. Il cancro se l’era spolpata viva. Le si fece vicina e avvertì forte l’odore di marcio, simile a quello di acqua stagnante in un vaso di fiori. Si chinò su di lei e le diede un bacio lieve sulla fronte. La nonna aprì gli occhi e la fissò come oltrepassare il suo sguardo.
<<Non si illuda: non la vede>>,  proseguì la bisbetica. Poi si rivolse alla nonna. <<Su, forza, è l’ora delle pulizie! Si aggrappi al mio collo che la tiro un po’ su!>>
L’ora delle pulizie consisteva nel lavaggio di quel corpo con una spugna imbevuta d’acqua e detergente liquido, che l’infermiera prelevava da una bacinella posta sul comodino.
<<Vieni, Lalla, vieni di là con me>>, disse zia Molly, vedendo che grosse lacrime silenziose cominciavano a rigarle il viso. <<Non farti vedere così dalla nonna: dobbiamo farle coraggio.>>
La portò nel bagno rosa, quello in cui adorava truccarsi da bambina: era uguale ad allora, non era cambiato niente. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, riaprirli e ritrovarsi piccola come un tempo, con la zia giovane e bellissima e la nonna che le aspettava in cucina, mentre preparava la cena. Invece li chiuse e, quando li riaprì, vide davanti a sé il viso stanco di zia Molly e la propria immagine riflessa nello specchio con gli occhi arrossati. <<Dai, sciacquati la faccia e torniamo di là!>>
La nonna era seduta nel letto, sorretta da due grossi guanciali e l’infermiera le stava di fronte con in mano un piatto contenente una poltiglia che non si capiva bene che cosa fosse. <<E’ l’ora della pappa, signora nonna!>>, annunciò. <<Adesso non mi faccia i soliti capricci e veda di mangiarla tutta. C’è qui anche sua nipote: non vorrà mica deluderla. Faccia vedere com’è brava, avanti!>>
La trattava come fosse una povera deficiente, pensò Lalla. Le si fece nuovamente vicino e la nonna la guardò, ma questa volta ci fu un lampo nei suoi occhi, che da vitrei, quali erano stati fino a quel momento, assunsero un aspetto vivo. E la riconobbe. La riconobbe e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Lalla si chinò su di lei e l’abbracciò e la nonna allungò le sue braccia scheletriche verso di lei e cercò di abbracciarla a sua volta, con le ultime forze che le erano rimaste e pianse in silenzio, guardandola in viso. Sembrava volersi aggrappare a lei come alla vita. Le si avvinghiò addosso, fino a che l’infermiera non le separò. Dalla bocca della nonna uscì un singhiozzo soffocato.
<<Nonna...>>
<<Si faccia da parte, signorina!>>, ordinò la scorbutica. <<Sua nonna deve mangiare adesso.>>
Lalla avrebbe voluto gridare e mandarla a quel paese: possibile che non capisse che in quel momento a sua nonna non gliene fregava niente di mangiare? Era molto più nutriente un abbraccio di sua nipote di qualsiasi piatto. Ma davanti a quel donnone, Lalla indietreggiò docile.    
L’infermiera tentò di imboccare la nonna, ma lei sputava fuori ogni boccone che l’altra insisteva a ficcarle in bocca con la delicatezza di un domatore del circo. Non faceva in tempo a tenere in bocca il primo cucchiaio, che quella befana gliene infilava subito un altro, col risultato che la nonna si sbrodolava tutta e l’altra si arrabbiava e la sgridava.
Lalla non resistette a lungo davanti a tanta crudeltà: "Porca miseria, è con un essere umano che stai avendo a che fare, brutta cretina!", pensò. "E’ mia nonna quella che stai imboccando!" E d’istinto le tolse il cucchiaio di mano: <<La imbocco io>>,  disse.
Il donnone rimase così sorpreso, che non ebbe nemmeno fiato per ribattere e cedette le armi. Lalla prese piatto e cucchiaio e si sedette sul bordo del letto, avvicinando il cucchiaio alla bocca della nonna, lentamente e delicatamente, piano, per non urtare le sue labbra secche. E la nonna mangiò, mangiò fino all’ultimo boccone. <<Tornerò a trovarti domani, nonna, te lo prometto>>, le disse poi. <<Adesso devo andare a casa a studiare. Lo sai che  ho superato l’esame della patente? Guarisci presto,>> si sentì morire, nel pronunciare quelle ultime parole <<che dopo ti porto con la macchina a fare un bel giro.>> La baciò sulla fronte e uscì da quella stanza con un peso sull’anima, grande come una montagna.
Appena fu a casa, corse a chiudersi in camera sua a piangere e non volle uscire nemmeno per cena. Né la mamma né il babbo sapevano che quel pomeriggio era stata dalla nonna e non sapevano darsi una spiegazione di quel comportamento. Pensavano ad una lite col fidanzato o a qualcosa che riguardasse la scuola. Lalla si era chiusa a chiave in camera e non voleva aprire a nessuno, ma alla fine, dietro l’insistenza del babbo, cedette ed aprì. Quando suo padre l’abbracciò, chiedendole cosa fosse successo, Lalla vomitò fuori tutto il suo dolore.
Mamma e papà le proibirono di tornare a trovare la nonna nei giorni successivi. Temevano per la sua salute: l’anoressia era ancora un ricordo molto fresco in ognuno di loro. 

La settimana seguente, quando Lalla uscì di scuola, non c’era suo padre ad aspettarla, come ogni mattina, ma Dino. Comprese subito, senza bisogno di parole. La nonna se n’era andata e lei non aveva mantenuto la sua promessa: Tornerò a trovarti domani, nonna...
Addio, nonna Ines. Addio, nonna Is!


L’UNIVERSITA'

Gli anni dell’Università, eccetto il primo, furono pesanti e noiosi.
Tanto per contrastare suo padre, Lalla aveva deciso di iscriversi alla facoltà di Magistero con laurea in Pedagogia. Di pedagogia non ne sapeva proprio nulla, lei che veniva dal classico. Le sue compagne di corso provenivano tutte o quasi dall'istituto magistrale e avevano già diverse nozioni di quella materia, quindi erano un po’ più avvantaggiate di lei.
La scelta dell’Università era stata un terno all’otto. Il babbo forzava per Legge o Medicina, mentre lei avrebbe voluto iscriversi alla facoltà di Psicologia a Padova, ma non se ne parlava nemmeno di andare così lontano da casa. Ecco, dunque, il ripiego. All’atto dell’iscrizione, Lalla inserì tutti gli esami facoltativi di psicologia, ma volle aggiungere anche quelli di letteratura e materie umanistiche, per aprirsi le porte all’insegnamento, perché non si poteva mai sapere.
I primi tre anni era perfettamente in corso, ma la crisi comparve il quarto, quando di studiare materie così sterili come filosofia morale, filosofia teoretica e metodologia e didattica dell’insegnamento medio proprio non le andava giù. Cataste di libroni ammucchiati nella libreria della sua stanza aspettavano di essere scoperti, pagina per pagina, e studiati. Lalla li apriva, leggeva qualche capitolo e le veniva la nausea.
E poi basta: dopo anni di fidanzamento con Dino, voleva sposarsi. Voleva una sua vita, fuori dal nucleo familiare e voleva dei figli, al più presto. Dino aveva appena ultimato il servizio militare e aveva iniziato a lavorare. Perché aspettare ancora? Quattro esami e la tesi: solo quello le mancava. Avrebbe potuto studiare anche da moglie, no?


IL MATRIMONIO

E così, il 6 settembre dell’anno 1986 ebbero luogo le nozze, con immenso dispiacere del babbo, che avrebbe voluto vederla prima laureata.
Lalla era raggiante ed emozionata come non mai. L’ora era fissata per le 16.30 di quel caldo pomeriggio di fine estate. Auto d’epoca, abito stile charleston, color avorio, con la gonna a pieghe sotto il ginocchio, cappellino con veletta e guanti di pizzo bianco, scarpe con tacco basso, un filo di perle al collo e l’immancabile bouquet di roselline rosa e bianche con velo da sposa.
Dino l’aspettava in chiesa, vestito stile AL Capone, in blu gessato bordeaux, con farfallino in tinta e scarpe di vernice. Non appena gli fu vicino, le sorrise e le sussurrò: <<Sei bellissima.>>
Lalla sorrise a sua volta, felice.
La piccola chiesa, la chiesetta dove da ragazzi solevano sostare al sole dei mesi più caldi, seduti sui gradini in pietra, era gremita di parenti, mentre tutti i vecchi amici di un tempo, compagni di una vita intera, aspettavano fuori.
Mamma Marisa e babbo Mondo sedevano sulla prima panca alla sinistra, insieme a Mara, mentre i genitori del futuro sposo sedevano sulla panca di destra.
In seconda fila, nonna Lisa teneva d’occhio, visibilmente commossa, la nipote. Nonna Ines la osservava da lassù, Lalla ne era certa, e sentiva il suo sguardo benigno su di lei.
Antonella, la cugina, compagna di giochi e di scherzi d’infanzia, era la testimone della sposa, mentre lo sposo aveva scelto un amico di vecchia data.
Unico grande assente Doriano, l’artefice di quell’incontro, fatale per le loro vite. Chissà che fine aveva fatto? Perso per strada, come tante amicizie che seguono percorsi diversi e poi si perdono chissà come, chissà dove.
Al termine della cerimonia, foto di gruppo con amici e parenti in Villa Toeplitz, il luogo dove Lalla aveva trascorso la sua fanciullezza, e poi cena presso un raffinato ristornate di Luino. Lalla e Dino ci sarebbero tornati per festeggiare il decimo anniversario di matrimonio.
Verso le undici di sera, Dino cominciò a manifestare una certa impazienza di andare a casa e non perse occasione di farlo capire alla sposa, perciò salutarono tutti e si dileguarono nella calda nottata, con le luci delle case che si riflettevano sul lago e la brezza lacustre, che soffiava all’interno della vettura con i finestrini abbassati.
Dino fece i gradini due a due per raggiungere l’appartamento al secondo piano, seguito da Lalla, che quasi faticava a stargli dietro. <<Ehi, ma dove corri?>>, lo ammonì. Caspita, aveva davvero così tanta fretta? Ancora non sapeva cosa l’aspettava. <<Aspettami: la tradizione vuole che lo sposo faccia valicare la soglia alla sposa tenendola in braccio!>>
Dino rallentò la corsa, la prese in braccio e, dopo avere aperto la porta, la portò dentro e la lasciò cadere a terra, sul tappeto d’ingresso, per poi precipitarsi in sala ad accendere la tivù: non poteva certo perdersi l’arrivo dei mondiali di ciclismo!  

Quando Lalla si tolse il vestito, chicchi di riso caddero sul pavimento, spargendosi qua e là. Depose con cura l’abito, che non avrebbe indossato mai più, su di una sedia e infilò la camicia da notte che sua madre le aveva regalato, la stessa che aveva indossato lei, ventisei anni prima, la sua prima notte di nozze, e scivolò sotto le coperte, in attesa che il programma sportivo terminasse e il marito la raggiungesse.
Sul cuscino di Dino c’era un pacchettino minuscolo, inequivocabilmente di gioielleria, con un biglietto: era un regalo che mamma Marisa aveva voluto fare allo sposo. Il biglietto non aveva busta ed era socchiuso. Lalla ne sollevò un’estremità e lesse le seguenti parole: Ama sempre Lalla come in questo giorno, perché è una donna dolcissima e ha tanto bisogno d’amoreMarisa.
Lesse quelle parole e pianse commossa.


ADDIO, NONNA LISA

Era trascorso solamente un anno dal giorno del matrimonio, che anche nonna Lisa si ammalò. Ormai non ce la faceva più a vivere da sola: cadeva in continuazione e non era più autosufficiente. Aveva subito due interventi per estirpare due tumori ed era vecchia e debilitata.
Mamma Marisa e i suoi fratelli decisero che la cosa migliore da farsi fosse quella di metterla in una casa di cura per anziani, dove poteva essere seguita e curata in modo adeguato. Venne ricoverata ad Omegna, presso una casa gestita da suore. Lalla andò a farle visita solamente una volta, insieme alla sorella: la nonna non riconobbe nessuna delle due.            
<<Chi sei tu?>>, le aveva chiesto.         
<<Sono Lalla, nonna, non mi riconosci?>> L’aveva guardata come si  guarda un perfetto sconosciuto.            
<<E tu, chi sei?>>, domandò rivolta a Mara .   
<<Sono Mara.>>
Era in stanza con un’altra donna, anziana come lei, che soffriva di demenza senile, ma sembrava molto più lucida. Che cosa l’aveva mai potuta trasformare a quel modo? Come poteva la sua mente avere cancellato ogni traccia delle nipoti, se non la morfina?
La visita fu breve. Nonna Lisa continuò per tutto il tempo a trattarle come due estranee alle quali si limitò a raccontare strane fantasie che riguardavano la sua compagna di stanza, che, secondo lei, era una ladra e voleva rubarle tutte le sue cose.
Qualche settimana più tardi, dall’Istituto, giunse la notizia che la nonna era caduta dal letto e che una costola le aveva perforato un polmone. La mamma corse ad Omegna, per assisterla nelle ultime ore della sua vita e la nonna spirò così, tra le sue braccia.


LALLA DIVENTA MAMMA

A ventisette anni Lalla finalmente riuscì a laurearsi. Gli ultimi quattro esami, che aveva contato di sostenere senza troppe difficoltà da sposata, le erano costati enormi sacrifici, perché tutte le sue energie motivazionali in fatto di studio, dopo il matrimonio, erano andate a farsi benedire. Discusse la tesi che aveva in grembo il suo primo figlio, Gianmarco. Era incinta di quattro mesi, ma non si vedeva ancora nulla.
Il tragitto fino all’Università fu tutto un programma: Lalla sdraiata a pancia in giù, nella macchina del babbo, mentre Dino seguiva con la propria insieme a Marisa e Mara.
La gravidanza si era presentata difficile dal primo momento, con le numerose minacce d’aborto e Lalla doveva starsene sdraiata a pancia in giù il più possibile, se non voleva perdere il bambino. Il medico le aveva sconsigliato di affrontare il viaggio fino a Milano, ma lei voleva, doveva laurearsi!  Di aspettare ancora un’altra sessione non se parlava proprio! Lei avrebbe fatto entrambe le cose: avrebbe sostenuto il colloquio d’esame e avrebbe salvato suo figlio.
Fu così che si presentò alla commissione esaminatrice con certificato medico con tanto di ecografia, che sosteneva che la candidata avrebbe dovuto sostenere il colloquio per prima, per motivi di salute. Entrò per seconda.
Tornati a casa, babbo, mamma e Mara uscirono a festeggiare, mentre Lalla e Dino festeggiarono, mangiando pasticcini nel letto, lei sdraiata a pancia in giù.
La gravidanza fu critica solo fino al quinto mese, poi tutto procedette liscio come l’olio, fino al momento del parto
Erano al supermercato, quando Lalla avvertì la prima doglia. Afferrò Dino per un polso e disse: <<Ci siamo!>>. Glielo comunicò così, davanti allo scaffale dei latticini.
<<Ne sei sicura?>>
<<Assolutamente.>>
<<Ma non è un po’ presto?>>
Mancavano in effetti ancora due settimane alla data stabilita dal ginecologo.    
<<Io ho sentito qualcosa adesso.>>
<<Aspettiamo. Magari è un falso allarme.>>
Fecero la spesa, mentre Lalla cronometrava le contrazioni, che si presentavano regolari ogni quarto d’ora. <<Ti dico che ci siamo.>>
Dietro sua insistenza, tornati a casa, fissarono un appuntamento urgente con il ginecologo, il quale decretò, alla visita, che non era ancora il momento, in quanto non c’era assolutamente dilatazione. <<Sono contrazioni preparatorie>>, sentenziò.
Quella notte stessa, Lalla giaceva in un letto del reparto ostetricia, in procinto di partorire.
L’attesa fu lunga, molto più lunga del previsto: ci vollero ben quarantasei ore, prima che Gianmarco si decidesse ad uscire. Dino assistette al parto e poté vivere così la meravigliosa esperienza della vita che sboccia!
Gianmarco nacque con un ciuffone di capelli neri sulla fronte, piangendo e sbraitando. Ma appena l’ostetrica lo pose sul ventre della mamma, smise di piangere, aprì gli occhi e la guardò. Lalla ne fu certa: la guardò.
Cinque anni più tardi, fu la volta di Ilaria.
Anche quella gravidanza si presentò complicata quanto la prima e Lalla dovette rimanere a letto per diverse settimane, ma, quando tutto sembrava essersi risolto per il meglio, ecco l’inizio della vera tragedia: Lalla aveva contratto una brutta infezione, che rischiava di estendersi alla sacca nella quale giaceva la piccola Ilaria. E così ci fu il primo intervento in anestesia totale, dove Lalla tremò, per paura che potesse accadere qualcosa a sua figlia, e poi il secondo e il terzo e così via. Al risveglio da uno di quelli, Lalla avvertiva fortissime contrazioni e Ilaria minacciava di nascere, ma era un feto di soli sei mesi: i suoi polmoni non erano ancora formati e rischiava di morire. Le vennero praticate iniezioni di una sostanza che accelera la formazione del tessuto polmonare, e Lalla fu sottoposta a terapia farmacologica, per rallentare le contrazioni e tentare di portare la gravidanza il più in là possibile. Nove ricoveri in cinque mesi.
Quando Ilaria nacque, fu un vero sollievo vedere che stava bene, nonostante tutto.
Ilaria, a differenza del fratello, era nata con taglio cesareo, per evitare che venisse in contatto con l’infezione contratta dalla madre. Lalla, però, aveva voluto l’epidurale, perché voleva veder nascere sua figlia, così come aveva visto nascere suo figlio.
Quando gliela deposero sulla pancia, le sorrise e disse: <<Hai visto, piccolina, ce l’abbiamo fatta!>>. E la baciò. Assomigliava tutta a nonna Ines, pensò.


IL LAVORO

Finché Gianmarco era piccolo, Lalla non lavorò e rimase a casa con lui, fatta eccezione per una breve supplenza in una scuola di un paese lontano.
Dopo la laurea, aveva sostenuto l’esame di abilitazione all’insegnamento, in seguito a un concorso a cattedre, conseguendola per la categoria della scuola media inferiore. Si era quindi iscritta nelle graduatorie del Provveditorato e aveva inviato numerose domande alle scuole della sua provincia, ma nessuna sembrava avere bisogno di lei.
Quando Gianmarco iniziò a frequentare la scuola materna, Lalla decise di darsi da fare, per trovare un lavoro, uno qualunque, pur di tenersi occupata, perché le giornate senza Gianmarco erano davvero troppo lunghe e troppo vuote. Spedì il suo curriculum a istituti, offrendosi come assistente sociale, provò con le scuole private, addirittura come venditrice a domicilio, ma era tutto fermo.
Iniziò allora a frequentare una palestra, dove prese a praticare body building. Quello sport l’appassionò a tal punto, che decise di mettersi a studiare e sostenere gli esami per divenire istruttore di quella disciplina. Fece un anno di duro allenamento e di studio teorico, al termine del quale sostenne gli esami a Milano, superandoli brillantemente, ma non riuscì a trovare un’occupazione nemmeno in quel campo.
Fu solo quando Ilaria compì un anno, che le cose cominciarono a muoversi e che le scuole iniziarono a contattarla, per le prime supplenze serie. Fino ad allora ne aveva fatte solo due della durata di qualche mese, ma niente di più. Adesso era arrivato il momento di quelle annuali e da lì a breve di quelle dal Provveditorato.
Era l’inizio di una nuova vita: quella della mamma lavoratrice.


ANORESSIA DI ILARIA

Tutto ebbe inizio una domenica di luglio dell'anno 2000.
Ilaria aveva quasi cinque anni e da quel giorno decideva di smettere di mangiare
Era domenica, una come tante. Lalla e la famiglia trascorrevano la giornata a casa dei nonni paterni, come di consuetudine. Ilaria giocava in giardino col fratello. La giornata era piuttosto calda.
Lalla se ne stava pigramente seduta su di una sdraio, sotto le piante, al riparo dal sole e dell'afa della giornata, osservando i figli giocare. La loro vita, fino a quel momento, si era svolta regolarmente, in maniera abitudinaria e scontata, banale, addirittura, fino a che non accadde l'imprevedibile, quel qualcosa di ancora più stupido e banale  che però stravolse la loro esistenza in pochi minuti, tanto da rimpiangere la banalità e la monotonia di sempre. Ancora adesso, che era vecchia, Lalla si domandava cosa fosse avvenuto nella mente di sua figlia, quella maledetta domenica.
Era sera e avevano deciso di uscire a mangiare una pizza insieme agli zii. Era da un po' che non li incontravano e i bambini sembravano entusiasti all'idea, specialmente il grande, tanto attaccato allo zio, col quale amava scherzare e confrontarsi.
La piccola Ilaria annunciò di volere stare seduta accanto alla zia. Tutto appariva normale, come sempre. I bambini seduti ai posti stabiliti, Lalla accanto alla figlia, il marito accanto a lei. A Ilaria la pizza era sempre piaciuta ed era sempre andata volentieri a mangiarla con loro. Aspettarono a lungo di essere serviti. Gianmarco protestava vivamente: aveva fame. L'attesa durò circa cinquanta minuti. Dino protestò col cameriere: non si era mai vista una cosa simile! La prossima volta sarebbero andati da un'altra parte.
A tavola si parlò del più e del meno e Lalla nemmeno si accorse che Ilaria non stava mangiando. A un tratto, le chiese di accompagnarla in bagno: le scappava la pipì. Non fece caso al piatto ancora pieno. Tornati a tavola, si rese conto che aveva appena assaggiato una fetta.
<<Non hai fame?>> Non fece caso alla risposta della figlia e riprese a mangiare con tutta tranquillità, senza minimamente preoccuparsi di quello che stava succedendo.
Terminarono tutti di mangiare e il piatto di Ilaria era ancora pieno.
Lalla la guardò interrogativa.
<<Non ne voglio più>>, disse Ilaria, precedendo la sua domanda.
<<La prossima volta facciamo a meno di ordinare una pizza intera>>, replicò lei seccata. Non era la prima volta che Ilaria la avanzava, ma non era mai successo prima che ne lasciasse così tanta.  <<E ne ordiniamo una in due. Guarda che spreco!>>
Ilaria si voltò verso il tavolo alle loro spalle e osservò le due bambine che mangiavano un piatto di patatine. Toccò un braccio alla madre e disse: <<Mamma, voglio le patatine.>>
<<No, cara. Non hai mangiato la pizza, niente patatine!>> La sua risposta fu secca e categorica. Ilaria cominciò a fare i capricci. <<Uffa, voglio le patatine!>>
E intervenne il papà, che si oppose a sua volta.
Ordinarono tutti il dolce e Ilaria riprese i suoi capricci.
<<In fondo non ha mangiato niente, Dino>>, osservò Lalla. <<Ordiniamole le patatine, magari le mangia, così ci tiene compagnia mentre noi mangiamo il gelato.>>
Dino si lasciò convincere. Arrivato il piatto di patatine, Ilaria rimase immobile a fissarle, senza nemmeno assaggiarle. A quel punto scattò il nervosismo da parte di mamma e papà. <<Si può sapere perché le hai volute, se poi non le mangi?>>, chiesero.
<<Le mangia Gianmarco>>, fu la sua risposta.
<<Gianmarco ha già mangiato la pizza e il gelato: non è una fogna che deve finire quello che non vuoi tu. La prossima volta ti lasciamo a casa: non vieni più con noi!>>
Era lunedì. Verso le nove, Ilaria si svegliò. Strano: non chiese di prepararle il latte coi cereali, come ogni mattina. Allora fu Lalla a proporglielo: <<Vuoi il latte, tesoro?>>
<<No, non ho fame>>, rispose.
Forse era colpa del caldo, pensò, e non diede minimamente peso alla cosa.
Gianmarco si alzò e fece colazione, poi si prepararono per andare da Adriana, un'amica della mamma, che praticava la terapia con i fiori di Bach, che Lalla seguiva da diversi anni e che ultimamente faceva seguire anche ai figli. Rimasero da lei fino alla una. Quando arrivarono a casa, erano già le tredici e trenta. Ilaria aveva fatto tutto il tragitto del rientro a fare capricci, perché voleva andare sui palloni gonfiabili, che aveva visto, passando dal centro. Lo stato d'animo di Lalla era di nervosismo, controllato a fatica, dal momento che doveva ancora preparare il pranzo e portare subito dopo Gianmarco in oratorio. Comunicò che, data l'ora, non intendeva cucinare niente, ma che si sarebbe mangiato un toast e della frutta. Ilaria iniziò la sua esibizione: protestò a gran voce e sfoderò il suo ricco vocabolario di insulti e parolacce. Il nervosismo di Lalla aumentò.
<<Fammi la pasta!>>, le urlò.
Lalla cercò con le buone di farle capire che era molto tardi e che non ce n'era il tempo.
<<La voglio!>>
Ilaria cominciò a snocciolare un rosario di parolacce. Utilizzava quel vocabolario solo in determinate occasioni, quando doveva far fronte ad una frustrazione o ad un rifiuto o ad una situazione disagevole per lei. Lalla e Dino non avevano mai saputo come comportarsi, davanti a quei suoi atteggiamenti: non erano servite le sgridate, non erano servite le spiegazioni del non è educazione e non si deve fare, non era servito qualche scapaccione e nemmeno far finta di niente. Ultimamente, Ilaria aveva imparato a reagire alle frustrazioni con un atteggiamento isterico, rovesciando le sedie di casa, aprendo e sbattendo i cassetti, aprendo violentemente le ante degli armadi, lanciando dietro qualunque cosa avesse in mano, rivoltandosi contro i familiari a calci e pugni e contro se stessa, graffiandosi la faccia e mordendosi le mani.
Ritornando al momento del pranzo di quel lunedì, dietro l’insistenza della figlia, Lalla reagì da nevrotica, sbraitando, ma facendo quello che lei le chiedeva: preparò la pasta.
<<La voglio col sugo!>>
Lalla brontolò e si arrabbiò, ma cedette al suo volere: avrebbe portato Gianmarco all'oratorio con mezz'ora di ritardo.
Pronta la pasta, gliela mise in tavola, ma lei, non appena la vide, esordì dicendo: <<Non la volevo col sugo: la volevo con l'olio!>>
Lalla si arrabbiò interiormente, fino a provare una contorcimento di viscere, ma cercò di contenere la rabbia: si sentiva presa in giro. Possibile che una mocciosetta viziata di cinque anni riuscisse a farla sentire così? Non sopportava l'idea che l'avesse vinta lei!
Non comprese che stava succedendo qualcosa nella sua mente.
<<E allora, cosa pretendi adesso? Che te la rifaccia?>>, cominciò ad urlare e faticò a controllare l'impulso di mollarle una sventola ben piazzata.
<<Non voglio la pasta. Voglio la carne!>> Il suo tono era imperioso.
<<La carne non ce l'ho: è in freezer, congelata, e non te la posso fare. O mangi la pasta o non mangi nient'altro!>>. Oramai erano sullo stesso livello: stavano litigando, incapaci di gestire la reciproca frustrazione.
<<Voglio la pasta con l'olio o la carne! Questa col sugo non la voglio.>>  Il suo sguardo era altezzoso, di sfida.
<<Bambina viziata!>>, masticò Lalla tra i denti.
<<Ti ho sentita!>>, replicò Ilaria.
<<Mi hai fatto fare da mangiare per niente. Guarda qui!>>, Lalla perse il controllo e gridò. Gianmarco osserva la scena indifferente, continuando a mangiare. Ilaria prese ad insultare Lalla ed ecco che scattò qualcosa in lei, che la portò a reagire come non aveva mai fatto prima: allontanò la sedia sulla quale era seduta la figlia, la sollevò di peso, se la sdraiò sulle ginocchia e  la sculacciò, per poi abbandonarla sul pavimento, dove lei si era lasciata cadere in singhiozzi. <<Sei una bambina cattiva! Sparisci dalla mia vista, che non ti voglio più vedere! Non ti voglio più bene.>>
Frase assassina: non ti voglio più bene. Come poteva averle detto una cosa simile?
Ilaria pianse e gridò: <<Adesso facciamo la pace! Conto fino a tre: al tre facciamo la pace! Uno, due, tre!>> Cercò la mano della madre da stingere, ma Lalla gliela negò.
Quel rituale della pace durava ormai da mesi, dopo ogni litigio, e l’aveva veramente snervata. Non ne poteva più e decise che la pace stavolta non l’avrebbe fatta, costasse quel che costasse. Ilaria faceva la dura? L’avrebbe fatta anche lei. Basta essere succube di una bambina! Che razza di madre era mai, se cedeva sempre, per far sì che si calmasse? Ma perché, si domandò, bisognava sempre arrivare allo scontro brutale con lei, per ottenere qualcosa, anche la semplice obbedienza ad una banalissima richiesta?
Il momento del pranzo si concluse così, con Ilaria che non toccava cibo e Lalla col mal di stomaco dal nervoso. Gianmarco, invece, aveva la pancia piena ed era apparentemente tranquillo. Lalla lo accompagnò all'oratorio e rientrò a casa con Ilaria. Ma qualcosa era cambiato nel loro rapporto, qualcosa si era rotto. Lei si era rifiutata di fare la pace.   
All’ora di cena, Ilaria si rifiutò di mangiare, ma Lalla ancora non si rendeva conto e continuò a non dar peso alla cosa, ignorando il problema e non dando alcun peso all'evento: prima o poi le sarebbe venuta fame. Aveva già cancellato l'episodio del mezzogiorno, anche perché Ilaria sembrava essere tornata alla normalità, a parte il fatto che non mangiava. Gliene chiese il motivo e lei rispose che aveva mal di pancia. Le sarebbe passato e avrebbe mangiato il giorno seguente.
Martedì.
Sveglia alla solita ora. Di nuovo Ilaria non chiese la colazione. La cosa cominciò a sembrare alquanto strana. Lalla decise di preparargliela ugualmente: magari, vedendola, le sarebbe venuto appetito. Invece, arrivò l'ora di pranzo che il latte era ancora nella tazza e Ilaria annunciò di non voler nulla da mangiare. <<Ho mal di pancia>>, disse.
Lalla informò Dino per telefono: <<Ilaria non mangia.>>
Fu la prima di una lunga serie di identiche ed estenuanti comunicazioni.
<<Come? Nemmeno oggi?>>, si allarmò lui. <<Lalla, chiama subito il dottore! Da quanti giorni non mangia questa bambina?>>
Era il terzo.
<<Chiama il pediatra. Cosa dice lei?>>
<<Che ha mal di pancia.>>
<<Non è che ha preso del freddo?>>
<<Con questo caldo?>>
<<Magari in piscina.>>
Già, la piscina... Ilaria frequentava un corso di nuoto da un mese ed effettivamente, ogni volta che andava in piscina, si lamentava del mal di pancia. A detta di tutte le mamme, l'acqua era molto fredda.
<<Non è che magari ha preso qualche virus?>>
<<Non so, può darsi.>>
<<Chiama il dottore, subito. Non aspettare!>>
<<Adesso non c'è. C'era stamattina. Telefonerò domani. Magari nel frattempo le passa e riprende a mangiare. Infondo è da domenica sera che non tocca cibo. Siamo solo a martedì.>>
<<E' già troppo.>> Il tono del padre era molto allarmato. Dino aveva il potere di mettere Lalla in agitazione. E così, cominciò a preoccuparsi seriamente. Cosa aveva sua figlia? Andò da lei. <<Ilaria, dimmi perché non mangi. Cosa ti senti? Dove ti fa male?>>
<<Non ho mal di pancia. Non mangio perché ho paura.>>
<<Paura? Di che cosa?>> La sua risposta la lasciò sgomenta.
<<Ho paura di soffocare.>>
Paura di soffocare? Questa poi! Perché mai avrebbe dovuto avere paura di soffocare? Lalla richiamò immediatamente il marito e gli spiegò la situazione. Dino aveva la soluzione pronta: <<E' chiaro! Si riferisce a sabato scorso, quando le si è fermato il boccone delle lasagne in gola. Ti ricordi? E' successo anche la settimana precedente, in pizzeria coi tuoi, quando siamo tornati da Praga. Si stava strozzando con la pizza! Probabilmente si è spaventata e adesso ha paura di mangiare.>>
<<Ma come è possibile? Dopo quella volta ha mangiato ancora per due pasti consecutivi, senza alcun problema! Come può essere?>>
<<Non lo so, ma non aspetterei oltre a chiamare il pediatra. Chiamalo a casa.>>
Lalla telefonò e spiegò la situazione per filo e per segno.
Il medico stette ad ascoltare, poi disse che poteva essere che la bambina si fosse spaventata davvero tanto e che il ricordo del fatto le impedisse di mangiare. <<Si sbloccherà da sola, non tema, signora.>> Allora era proprio così. Niente paura: le sarebbe passato in due o tre giorni. Intanto le doveva dare da bere alimenti completamente liquidi, succhi e latte, che non le ricordassero la sensazione dell'inghiottire cibo solido. Provò col latte: Ilaria sembrò accettarlo, senza cereali. Provò col gelato: aspettava che si sciogliesse completamente fino a divenire liquido.
Passarono i giorni e Ilaria non migliorava. Non dava alcun cenno di sbloccarsi, al contrario, iniziava ad avere atteggiamenti strani, totalmente sconosciuti: ogni volta che si affrontava il discorso cibo, sbadigliava, una raffica di sbadigli, iniziava a soffrire di incubi e paure notturne e diurne, di cui non aveva mai sofferto prima: paura del buio, paura del fantasma, paura di cadere dalle scale, paura di volare via, paura delle zanzare, paura di vomitare, paura dei bambini e, da ultimo, paura di fare la cacca. Lalla chiamò nuovamente il pediatra e lo informò della cosa e degli strani comportamenti.
<<Me la porti subito in studio, signora. Dobbiamo parlare. Voglio vedere la bambina e parlare anche con lei.>>
La cosa la mise in allarme: quale pensiero si era formulato nella mente del dottore, per avere un tono così risoluto?
Nella sala d'attesa, c’erano ancora tre bambini davanti a loro. Ilaria non era la solita. Generalmente era vivace, chiacchierona, casinista. Allora era insolitamente silenziosa e tranquilla. Se ne stava vicino alla madre, in piedi, accanto alla sua poltrona, ad osservare gli altri bambini giocare.
La mamma di due maschietti si lamentava della vivacità dei suoi e continuava a ripetere che non ne poteva più: tacessero e stessero fermi, una volta per tutte!
Lalla non poté fare a meno di osservare  la scena e rimpiangere i momenti in cui era lei a sbuffare per la vivacità eccessiva della figlia. Più passavano i minuti, più la assaliva un soffocante senso di inquietudine: che cosa aveva Ilaria? Perché non mangiava più? Perché era così calma?
Entrarono nello studio verso le 11. Il medico le strinse la mano e le fece accomodare sulla poltrona di fronte alla scrivania. Ilaria le chiese immediatamente se poteva giocare sul tappeto con i pupazzetti e le costruzioni.
<<Dopo ti lascio giocare>>, rispose il medico. <<Ma adesso voglio che mi racconti che cosa ti è successo.>> La sua espressione era dolce, il tono di voce suadente.
Ilaria non aveva mai avuto paura del suo dottore, aveva sempre collaborato, rispondendo prontamente alle richieste, ma quel giorno era stranamente intimorita. Si faceva vicina alla mamma e le stringeva un braccio. <<Andiamo via, mamma. Voglio andare a casa>>, bisbigliava.
<<Vieni, Ilaria, vieni qui da me.>> Il pediatra la invitò ad avvicinarsi, allungandole una mano. Ma Ilaria respinse l'invito e si fece ancora più vicina a Lalla.   
<<Voglio andare a casa>>, bisbigliò di nuovo.
Il dottore prese una caramella gommosa alla frutta da un barattolo. <<La vuoi, Ilaria?>> Gliela mostrò.
Scosse la testa e abbassò lo sguardo. Le altre volte era lei a chiedere al suo dottore di dargliene una.
<<Perché non la vuoi? E' buona, sai? Sa di frutta! Provala!>>
Ilaria scosse la testa e strinse più forte il braccio della madre. Ma il medico non si scoraggiò. Prese un'altra caramella da un nuovo barattolo e gliela mostrò. <<Vuoi questa? Guarda!>> La scartò. <<Ne mangio una io e una la do anche alla tua mamma.>>          
Ne porse una anche a Lalla. Entrambi misero in bocca la caramella.       
<<Ora ne vuoi una anche tu? Chiedi alla tua mamma se è buona.>>
<<Buonissima>>, confermò Lalla.
Ilaria seguitò a scuotere la testa. Il medico le sorrise, allungò un braccio e la prese per mano, poi la tirò delicatamente a sé. <<Dimmi, Ilaria, perché non vuoi la caramella? Non ti piacciono più o c'è un altro motivo?>>
<<Ho paura>>, bisbigliò lei.
<<Non ho capito quello che hai detto. Puoi parlare più forte?>>
<<Ho paura.>> Il tono era sempre molto basso.
<<Paura di che cosa?>>
<<Di soffocare>>, rispose.
<<Hai paura di soffocare>>, ripeté lui. <<Ho capito. E come mai? E' successo qualcosa? Hai sempre mangiato le caramelle. Prima non avevi paura.>>
<<Adesso sì.>>
<<Guarda, Ilaria!>> Il dottore scartò la caramella e la esibì sotto gli occhi attenti della bambina. <<E' una caramella di zucchero. Appena la metti in bocca, si scioglie: non puoi soffocare. Non ti chiedo di masticarla, se hai paura. Ti chiedo solo di tenerla in bocca, finché si scioglie.>>
Ilaria non era convinta, ma, dietro la dolce insistenza del medico, si lasciò persuadere. La tenne sulla punta delle labbra, poi si allontanò dal medico e si avvicinò nuovamente alla mamma. Aveva uno sguardo tra il disperato e il supplice e, fissandola con le lacrime che le tremolavano sulle ciglia, le sussurrò: <<Posso sputarla?>>  
La sua richiesta le scoppiò in petto come una fucilata. Non fece in tempo a rispondere, che intervenne prontamente il dottore: <<E' buona, Ilaria? Ti piace?>> Lo disse, annuendo con la testa. Ilaria non ebbe il coraggio di dire di no e fece un debole cenno col capo. Poi si rivolse nuovamente alla madre con la medesima richiesta. E, di nuovo, il medico non le diede il tempo di rispondere: <<Perché adesso non vai sul tappeto a giocare, mentre io parlo un po' con la tua mamma?>>         
Ilaria si allontanò col magone e la caramella sempre in punta di labbra. Il dottore la osservava attentamente: <<Prova a spostarla da una parte all'altra della bocca: è un gioco divertente! Intanto la caramella si scioglie! Prova! Fai come me: guarda!>> E mimò il gesto. Ilaria ci provò. Sembrò convincersi che non c'era nessun pericolo e la caramella entrò finalmente in bocca. Lalla guardò la figlia con l'angoscia nel cuore. Vide che passava la caramella da una parte all'altra della bocca, disegnando un bozzo ora sull'una ora sull'altra guancia e lei sembra prenderci gusto. La vide più disinvolta e sembrava essere a suo agio. Andò sul tappeto a giocare.
Il medico si accomodò sulla poltrona e si rivolse a Lalla: <<Adesso, signora, mi spieghi bene quello che è successo e quali cambiamenti lei ha notato in questi giorni in sua figlia.>>
Riprese il suo racconto daccapo, cercando di non trascurare nessun particolare.         

Uscirono dallo studio del medico e si diressero verso il supermercato per fare la spesa. E lì Ilaria vide le caramelle uguali a quella mangiata dal dottore e volle comprarne un pacchetto.
Il pediatra l'aveva lasciata con la promessa che lei sarebbe andata a casa e avrebbe bevuto un bicchierone di latte, poi gli avrebbe telefonato per dirglielo. Ma a casa, si rifiutò di berlo. Iniziò, invece, a mangiare le caramelle, una dietro l'altra, fino ad arrivare a sette.   
Era di nuovo domenica e, come di consuetudine, andarono a pranzo dai genitori di Dino. Ilaria, non appena vide la tavola apparecchiata e il piatto posizionato al suo posto con tanto di bavaglino, annunciò: <<Io non mangio, nonna. Non dovevi apparecchiare per me.>>        
L'uscita della bambina mise in allarme l'intera famiglia. I nonni cominciarono ad  insistere che doveva mangiare, perché non si vive mica d'aria! Ila era dura, ferma sulla sua posizione e non cedette. Saltò il pasto, boicottando quello del padre: si sedette al suo posto e rifiutò di spostarsi. Fece di tutto per provocare. Dino perse la pazienza, la nonna la rimproverò, dicendo che una brava bambina non si comporta così, il nonno brontolò, Gianmarco insistette. Tutti fecero pressione a modo loro, affinché Ilaria si sedesse e provasse a mangiare o, almeno, rimanesse a tavola con loro. Lei si irritò e cominciò a dire le parolacce. A quel punto, Lalla intervenne: <<Insomma, basta! Se non vuole mangiare, lasciatela in pace! Mangerà quando ne avrà voglia. Non vi accorgete che più insistete e più si ostina a non farlo?>> Il tutto pronunciato davanti a lei, spettatrice molto attenta.
Ilaria uscì in giardino e gli altri ripresero il pranzo, con i musi lunghi e il mal di stomaco dal dispiacere. Tutti, tranne uno, Gianmarco, naturalmente, che sembrava non preoccuparsi minimamente della cosa. Del resto era soltanto un bambino di dieci anni.
Nel pomeriggio decisero di andare a fare un giro al lago, per stare un po' insieme e magari fermarsi in una gelateria. Difficoltà a trovare posteggio: c'era un traffico incredibile. Passeggiarono sul lungolago, mostrando a Ilaria le anatre e i cigni che mangiavano le briciole di pane che una signora stava gettando loro dalla ringhiera. Ilaria rise, guardando come gli uccelli si beccavano per rubarsi il cibo. Raggiunsero un bar all'aperto e si sedettero ad un tavolo. Ordinarono il gelato. <<Tu che cosa vuoi?>>, le chiese papà. <<Gelato e succo di albicocca.>>
Ordinarono anche per lei. Come da copione: non mangiò il gelato e non bevve nemmeno il succo. Ma, quel che fu peggio, ad un certo punto iniziò pure a sputare la saliva.      
<<Ma che fai?>>, domandò Lalla irritata.          
<<Sputo la saliva>>, rispose.      
<<Lo vedo. E perché lo fai?>>    
<<Perché se la mando giù soffoco.>>   
Ma che cavolo era  quella storia del soffoco? Come poteva pensare che la saliva potesse soffocarla?            
Ilaria cominciò a sputare ripetutamente e decisero di pagare e andarsene. Lalla si sentì morire. Le veniva da piangere e Gianmarco se ne accorse. <<Cos'hai?>>, le chiese con tono quasi seccato. <<Sono preoccupata per tua sorella. Tu no?>>  
<<No.>> Silenzio.  
<<Ma come fai a non capire? Tua sorella sta male. Se continua così può anche morire.>> Gianmarco continuò a camminarle accanto. <<E allora? Tutti dobbiamo morire, prima o poi.>>      
Gli strinse la mano. <<Ma che discorsi fai?>>
Gianmarco seguitò nel suo sermone: <<Se non muore adesso, magari morirà domani sotto una macchina, mamma. Fossi in te non mi preoccuperei.>>       

E arrivò anche il giorno in cui, di punto in bianco, Ilaria decise che non voleva più il latte e nemmeno il gelato: solo  succo di frutta. E dal succo, il giorno seguente, passò alla sola acqua, per poi eliminare anche quella. Due giorni di completo digiuno e due giorni senz'acqua.
Lalla era fuori casa, quando le giunse un messaggio di Gianmarco: mamma, sono io, appena leggi questo messaggio vieni subito a casa: Ilaria sta male.          
Percorse la strada verso casa a velocità folle, con un nodo che le stringeva la gola. Quando entrò in casa, trovò sua madre con Ilaria sdraiata sulle gambe addormentata. Cos'era successo?
<<Diceva di avere mal di pancia. Si è addormentata a forza di piangere>>, disse la nonna.
Lalla si avvicinò alla figlia e si inginocchiò davanti a lei. Le accarezzò i capelli: era sudata. La baciò sulle guance e lei aprì debolmente gli occhi. Abbozzò un sorriso e si riaddormentò.
<<Lalla, guarda che questa bambina ha qualcosa. Io non l'ho mai vista così. Non gioca più, ha perso la sua vivacità, se ne sta sdraiata e basta. Non è il caso di fare qualcosa?>> La nonna pareva molto turbata.
<<Più che averla portata dal pediatra, mamma! Ha detto che è questione di tempo. Sarà una cosa lunga.>>
<<E se si fosse sbagliato? Non potete andare avanti così: questa bambina sta male. Ha telefonato tua suocera: è preoccupata anche lei.>>
<<Siamo tutti preoccupati, mamma.>>
<<E allora muoviamoci!>>
<<Ma non so cosa devo fare!>>, gridò disperata.
<<Perché non la porti in ospedale e non la fate alimentare a flebo?>>
<<In ospedale? Non se ne parla nemmeno!>>. Su quello Lalla fu categorica. Era stata in ospedale lei stessa numerose volte e aveva vissuto malissimo l'ospedalizzazione. La prima volta aveva solo undici anni.
Ilaria si svegliò e ricominciò a lamentarsi del mal di pancia.            
Lalla si decise a chiamare il pediatra.    
<<Se fosse mia figlia, la porterei immediatamente all'ospedale>>, le disse.        

E così, Ilaria venne condotta in ospedale.
L'attesa fu snervante. Faceva caldo, non si respirava e le finestre erano chiuse.
Dino le raggiunse poco dopo: aveva preso il primo treno disponibile.
Finalmente il dottore! Entrarono nella sala visite. Lalla dovette spiegare tutto daccapo. Quella storia iniziava a nausearla: ogni dottore, ogni infermiera, ogni specialista, a tutti doveva raccontare di nuovo la storia per filo e per segno. Erano giorni, ormai che non parlava d'altro con le persone. Ilaria le andò in braccio. Lalla si sedette di fronte al medico. Un'infermiera prendeva appunti e preparava la cartella clinica. Ilaria le si avvinghiò addosso. Lalla sudava. Faceva caldo. Non si respirava. L'aria era satura di umidità e odore di farmaci. Non vedeva l'ora che tutto quello finisse per tornarsene a casa.
Il dottore chiese a Ilaria di guardarlo in faccia, ma lei si strinse sempre più addosso alla madre e gli voltò la schiena, sprofondando il viso nel suo petto. Spiegata ogni cosa e sbrigata la prassi, il dottore la invitò a sdraiare la bambina sul lettino, per poterla visitare: Ilaria iniziò a piangere, scalciare, divincolarsi, strappando di dosso i vestiti a Lalla.
<<Amore, il dottore non vuole farti del male: vuole solo visitarti, per capire quello che hai>>, cercò di tranquillizzarla, ma le sue parole sembravano sortire l'effetto contrario. <<Ila, dai, fa' la brava!>> Niente da fare: era lotta senza esclusione di colpi. Le urla della bambina riecheggiarono per il corridoio. Sembrava un'indemoniata e non c'era modo di calmarla.
A quel punto il medico perse la pazienza e fece la voce grossa: <<Adesso basta. Se non la smetti, mando via mamma e papà e ti visito ugualmente con le maniere forti.>>
Poco alla volta, sembrò acquietarsi. Adesso Ilaria iniziava a collaborare. Il medico le tastò l'addome, chiedendole dove le facesse male. Ilaria indicò la parte. Le piegò le gambe, la girò sottosopra: ora si lasciava fare di tutto. Da ultimo, Lalla dovette accompagnarla in bagno a fare la pipì, per effettuare un rapido esame delle urine e in bagno ebbe inizio la seconda parte dello show: Ila si oppose in tutti i modi. Non voleva assolutamente fare la pipì. Lalla rientrò in sala visite sconfitta: non ce l'aveva fatta. Ilaria aveva continuato a dire: <<Ho paura di fare la pipì.>>
Pensare che era solo l'inizio di una lunga ed estenuante battaglia!
Venne avanzata l’ipotesi della disfunzione organica. Il pediatra parlò di riflusso esofageo, di piloro e pose domande sulla modalità di alimentazione nei primi giorni e mesi di vita. Poteva anche trattarsi di un polipetto sull'esofago che le impediva la deglutizione dei cibi solidi, provocandole la sensazione di soffocamento. Sarebbe stato opportuno ricoverarla per accertamenti. Alla parola ricovero, Lalla si irrigidì immediatamente. <<E' proprio necessario?>>, domandò.
<<Direi di sì.>>
Lalla rivide quei bambini che aveva intravisto nelle loro stanze lungo il corridoio: sua figlia non sarebbe stata tra quelli, pieni di cannette, con le flebo infilate nella braccia e il braccio fasciato rigido, lo sguardo triste e spento. No! No e poi no! Se la sarebbe riportata a casa e l’avrebbe fatta mangiare in qualche modo, tanto non aveva sicuramente nulla. Ilaria stava bene: era solo un momento così. Sarebbe passato presto. Le sarebbe stata vicina e sarebbe passata.
Intanto, il foglio di ricovero veniva compilato.
<<Un momento!>>, esclamò Lalla. <<Preferisco aspettare. Voglio portarla a casa e riprovare.>>
Il medico scosse la testa, abbozzando un sorriso che aveva dell'ironico, quasi a dire: povera illusa, ci rivedremo presto!
Raccolse la sua roba da terra, prese in braccio la figlia, poi la consegnò nelle braccia del marito ed uscirono.      

Era l'ora di cena. Lalla apparecchiò la tavola: Ilaria non si sedette nemmeno e annunciò che non intendeva mangiare. Andò in sala e chiese di vedere una cassetta: voleva quella della recita di Natale. Lalla e Dino in cucina sentivano risuonare dall'altra stanza la voce registrata di Ilaria che cantava insieme agli altri bambini: coro di bimbi metti le ali, vai per il mondo senza confini...
Era terribile sentire quelle voci cantare gioiose, mentre Ilaria se ne stava immobile sul divano, senza dire una parola e si consumava minuto dopo minuto.
Lalla scoppiò in un pianto dirotto e si abbandonò in ginocchio sul pavimento. <<Morirà. Ilaria morirà. Dio ha deciso di portarcela via.>>
Il giorno seguente, alle 7.10, Dino si preparava ad andare al lavoro. Lalla era ancora stravolta dallo sfogo della sera precedente. Si alzò a fatica, andò in bagno e si guardò allo specchio: aveva gli occhi rossi e gonfi, la faccia disfatta, lo sguardo stranito.     
A un tratto Ilaria chiamò: <<Ho sete.>> 
Dino le portò da bere. Pochi secondi dopo un grido: <<Oddio! Sta vomitando! Lalla, portami un catino!>>
Ilaria vomitava a più riprese. Vomitava un liquido giallo. Era pallida, le labbra esangui si confondevano con la pelle del viso. Gli occhi erano contornati da un alone nerastro. Tentò di alzarsi, ma ricadde su se stessa: ormai non si reggeva più in piedi.
Alle 8.00 Ilaria veniva ricoverata.
Un assistente chiese le generalità, le malattie dei genitori, quelle dei nonni e compilò una nuova cartella.
Dall’esame delle urine risultò che aveva l'acetone alle stelle. La pediatra spiegò che era dovuto al fatto che non mangiava, perciò, esauriti gli zuccheri a disposizione, il suo organismo aveva iniziato a metabolizzare i grassi, causando appunto l'acetone.            
<<Le facciamo subito una flebo: si sentirà meglio>>,  annunciò subito dopo.
I giorni seguenti furono un autentico strazio, con Ilaria che subiva ogni sorta di tortura, senza batter ciglio e Lalla che non aveva cuore di stare a guardare, mentre venivano infilati a sua figlia aghi nelle braccia e sondini nello stomaco. Intanto si era presentato il blocco intestinale. Ilaria sembrava essersi arresa e non avere la minima intenzione di riprendere a mangiare. Lalla studiava ogni stratagemma per indurla a inghiottire anche solo una briciola di pane, ma inutilmente.
Una volta sembrò accettare il pasto, un piatto di semolino. Per la prima volta, da settimane, Ilaria aprì la bocca e ricevette il cucchiaio. Quella sembrò essere un’autentica vittoria, ma era solamente una menzogna: la piccola approfittava della distrazione della madre o dell’infermiera, per sputare il cibo nel tovagliolo e nasconderlo sotto le  lenzuola. Quando l’infermiera se ne avvide, informò Lalla, suggerendole di non far capire alla bambina di essere stata scoperta. Mise, invece, in atto un ulteriore stratagemma: non toglierle gli occhi di dosso e stare a guardare, finché non avesse inghiottito il boccone. Ilaria allora teneva il cibo in bocca un’eternità e non deglutiva. Quando capì di non avere scampo, simulò un improvviso mal di pancia e si fece accompagnare in bagno, dove, invece di fare pipì, sputò tutto nel water.
I medici tentarono di esplorarle l’esofago, attraverso una radiografia, ma l’impresa si rivelò impossibile, in quanto Ilaria rifiutava categoricamente di inghiottire la poltiglia bianca e gessosa che le veniva offerta dal radiologo. L’insistenza del medico suscitò la rabbia incontrollata della bambina che, forzata col sondino, gli sputò tutto il contenuto della bottiglia addosso. L’unico modo per visionare esofago e stomaco restava la sonda con anestesia totale, cosa alla quale Lalla e il marito si opposero con fermezza.
Lo psichiatra del reparto pediatria convocò i genitori alla presenza del primario e pronunciò il verdetto: Ilaria soffriva di una forma di anoressia.
<<Le consiglio di rivolgersi al più presto ad un centro che cura i disturbi alimentari. Si trova a Milano ed è un ottimo centro, signora>>, disse il medico. <<Non aspetti: ne va della vita di sua figlia.>>
Ormai era inutile continuare a tenere Ilaria in ospedale: lì non avrebbero potuto fare più nulla
Ci vollero quattro mesi, mesi di acqua e zucchero e tè freddo e succhi di frutta. Mesi di pappette spappolate, stando attenti a non lasciare nemmeno un pezzettino di cibo solido, altrimenti sarebbe stato il rifiuto e la vanificazione di ogni sforzo compiuto fino a quel momento, mesi di tormenti, di angosce, di pianti, di disperazione e di speranze, ma alla fine Ilaria ne venne fuori. Era la fine di un incubo.


MALATTIA DEL BABBO

Ilaria era guarita da soli due mesi, che nonno Mondo cominciava a non essere più lo stesso: appariva stanco, dimagrito, tirato in viso.
Lalla lo vedeva praticamente ogni giorno, col fatto che, quando lei andava al lavoro, lui passava da casa, per svegliare i bambini e accompagnarli a scuola.
Una mattina, Dino aveva perso il treno e si era trattenuto a casa più a lungo, tanto da incrociare il suocero per le scale. Quella stessa sera, tornato a casa, disse alla moglie: <<Ma che cos’ha tuo padre?>>
Lalla lo aveva guardato stranita: <<In che senso?>>
<<Perché, non lo vedi da te com’è dimagrito?>>
<<Che cosa stai dicendo, scusa? A me sembra sempre uguale!>>
Dino aveva storto il naso. <<Io che non lo vedevo da un po’, devo dire che lo trovo sciupato e magro. Ma hai visto le spalle del giaccone dove gli arrivano?>>
Lalla cercò nella mente l’immagine del padre: effettivamente era dimagrito, ma non tanto, poi. <<Sarà stressato>>, osservò.
<<Stressato di che?>>, obiettò Dino.
Il babbo di Lalla era in pensione ormai da qualche anno e la sua vita era fatta di passeggiate con la moglie e corse con i nipoti, più le partite a carte, al circolo con gli amici.
Lalla ripensò a quello che era suo padre anni addietro, sempre energico, vitale e iperattivo. Forse la pensione lo aveva spento e lui incominciava a sentirsi vecchio, anche se vecchio non era: in fondo aveva solo 67 anni.
<<Sarà la crisi del pensionato!>>, suggerì.
<<Credici!>>
<<Che cosa vorresti dire?>> Lalla scrutò Dino con fare sospetto.
<<Io dico che è ammalato: tuo padre non sta bene. Si capisce.>>
Come poteva sostenere una cosa del genere? Lei era sua figlia e non aveva mai notato nulla, se non che negli ultimi tempi era diventato più taciturno.
<<Perché non provi a parlargli e a chiedergli come si sente?>>, le suggerì il marito. <<Parlane anche con tua madre.>>
"Mio padre sta benissimo: è solo stanco", pensava Lalla. E poi quella storia di Ilaria aveva distrutto un po’ tutti.
La mattina seguente, quando il babbo fece il suo ingresso in cucina, dove Lalla stava lavando le tazze della colazione, lei lo guardò fisso, notando che , in effetti, il giaccone gli stava un po’ largo. Forse un po’ troppo largo. <<Come stai?>>, gli domandò a bruciapelo.
<<Come sto?>> Sembrava sorpreso da quella insolita domanda.  
Lei si aspettava rispondesse bene, invece rispose: <<Mah, non so...>>
<<Che significa non so?>>, chiese la figlia.
<<Significa che mi sento un po’ strano ultimamente.>>
<<Strano come?>>
<<Quante domande! Perché?>> Sembrava seccato.
<<Così, nulla... ti vedo un po’… come dire? Sciupato!>>
<<Sono vecchio, Lalla. Solo questo: sono ormai vecchio e inutile.>>
La risposta la sorprese e la tranquillizzò ad un tempo. Lo sapeva: era la crisi del pensionato!
La sera, riferì a Dino la risposta del padre.       
<<E’ evidente che ha qualcosa e non lo vuole dire>>, fu il suo commento. <<Fossi in te, comincerei a preoccuparmi.>>
Non sopportava che dicesse quelle cose. Accidenti! Sembrava così sicuro di sé.
<<Sei cieca, perché non vuoi vedere, Lalla, ma io, che ne sono fuori, vedo benissimo. E quello che vedo non mi piace affatto. Fossi in te lo chiamerei e lo inviterei ad andare dal dottore. Magari potresti accompagnarcelo tu stessa.>>   

Un pomeriggio, mentre stava andando a riprendere Ilaria alla scuola materna, incontrò il babbo per strada. Strano, aveva detto che sarebbe andato al circolo con gli amici a giocare a carte! Che cosa ci faceva in giro da solo? La risposta fu evasiva: <<Avevo voglia di fare due passi per conto mio.>>
Un'altra volta, sempre andando a riprendere Ilaria a scuola, dovette passare dalla casa dei suoi, vicina all’asilo, perché a Ilaria scappava la pipì e non riusciva a tenerla. Fortunatamente aveva sempre in borsa le chiavi. Rimase sorpresa nel trovare il babbo a casa da solo, al buio. Il babbo se ne stava abbandonato in poltrona, con un vecchio album di fotografie aperto sulle ginocchia. <<Che ci fai qui?>>, domandò sorpresa.      
<<Avevo voglia di stare un po’ solo.>>
Gli si fece vicino: <<Che cosa stai guardando?>>
<<Le foto tue e di tua sorella quando eravate piccole.>>
Il babbo doveva essere proprio esaurito! Era in crisi.
<<Stai bene? Ne sei certo?>>
<<Sì.>>
Non era un sì convinto.
<<Perché non andiamo a trovare il dottore insieme? Magari può darti qualcosa, che so? Un antidepressivo, una curetta per tirarti un po’ su...>>
<<No, non ho voglia di cure.>>
<<Ma che cosa ti senti? Hai dolore da qualche parte?>>
<<Ho mal di stomaco: non riesco più a digerire. Credo di avere la gastrite.>>
<<Allora andiamo dal dottore a farci dare una cura per la gastrite. Ti accompagno: vengo con te.>>
<<No, Lalla. Non voglio. Non ora. Andrò da solo, quando lo deciderò io.>>
Lalla cedette, ma si fece promettere che ci sarebbe andato nel giro di qualche giorno.
Un’ecografia all’addome e il ricovero immediato.
Che cosa stava succedendo a suo padre?
I medici dicevano che aveva un problema al pancreas, che bisognava operarlo subito, perché aveva un coledoco ostruito. Nel frattempo, il babbo era diventato tutto giallo come un limone.    
L’ospedale dov’era stato ricoverato era parecchio distante da casa e non era semplice andarlo a trovare, dati gli orari e i problemi di lavoro, quindi dovette  attendere il sabato, per andare a fargli visita.
Il babbo giaceva in un letto posto accanto alla finestra, con lo sguardo perso nel vuoto e l’aria assente. Quando la vide entrare, il suo sguardo si illuminò di gioia allo stato puro. <<Lalli!>>, aveva esclamato. Lei gli era corsa incontro e lo aveva abbracciato e baciato. Il babbo raccontò che gli avevano fatto un sacco di esami e che era in attesa di essere operato per riaprire il coledoco. <<Sembri un cinesino, tutto giallo!>>, aveva ironizzato lei.
Rimase con lui fino a che non terminò l’orario di visita, poi tornò a casa. Silenzio in macchina, lungo tutto il tragitto.  Silenzio e mille pensieri
Lalla non aveva creduto alla storia del coledoco, anche perché Dino insisteva che si trattava di una bugia. Si decise a chiamare il chirurgo che l’avrebbe operato: <<Voglio sapere che cos’ha mio padre>>, disse.
<<Non sono autorizzato a risponderle.>>
Non sono autorizzato a risponderle?
Il giorno seguente, Lalla si presentò davanti allo studio del chirurgo in ospedale, ma non venne ricevuta: un’infermiera disse che il dottore stava operando e che ne avrebbe avuto per ore.
Telefonò a zio Aldo, il fratello minore del babbo, nonché amico del medico: doveva sapere sicuramente qualcosa. <<Dimmi che cos’ha davvero mio padre.>>          
All’altro capo del telefono silenzio.        
<<Dimmelo, per favore>>, bisbigliò lei.
Lo zio si schiarì la voce e ponderò bene le parole: <<Lalla...>>, cominciò.  <<Dobbiamo essere pronti al peggio.>>
Fu come un esplosione nel cervello, un fuoco devastante che le divorò in un attimo i pensieri e le tolse ogni facoltà di parola. Tacque. Quando si riebbe, riprese: <<E’ così grave?>>
<<Sì.>>
<<Ma... ma se stava bene fino a poco tempo fa?>>
<<Lalla, devi essere forte. Devi esserlo anche per tua madre.>>
Che cosa significavano quelle parole? Il babbo doveva solo riaprire il coledoco!
<<Ascolta...” riprese lo zio. <<Con zia Molly abbiamo parlato a lungo: ti avremmo informata in un secondo momento. Riteniamo sia meglio che tua madre non sappia niente per ora.>>
Sapere niente? Che cosa c’era da sapere?
<<Tuo padre potrebbe morire durante l’intervento di domani.>>
Oddio...no...
<<Ma...>>
<<Ha un tumore: è molto grave. E’ già esteso dappertutto, ma, se non lo operano, entrerà in coma epatico e morirà in due o tre giorni al massimo.>>
Tumore al pancreas, con metastasi e ramificazioni ovunque.
Babbo.. babbo...
Dieci mesi di menzogne. Dieci mesi di sofferenza per lui e per tutti loro, che sapevano e fingevano di non sapere. Il babbo doveva credere di avere una pancreatite acuta cronica, dalla quale non sarebbe mai guarito. Doveva sapere che era grave, ma che poteva farcela, poteva sopravvivere e avere una vita ancora lunga e decorosa, anche se supportata continuamente da cure.
Mesi di pianti da parte del babbo, che faceva di tutto per ingrassare, ormai ridotto ad uno scheletro, perché sapeva che ogni chilo conquistato era un pezzo di vita conquistata ed ogni chilo perso equivaleva all’avvicinarsi della fine; mesi di pianti di nascosto da parte della mamma, perché sapeva che non c’era speranza, ma voleva sperare ugualmente; mesi di pianti e di strazio anche di Lalla e di sua sorella, che sapevano e tacevano, sapevano e ingannavano, ogni volta che parlavano con lui, e dovevano ridere e prenderlo in giro, trattandolo come un bambino.
Bugie, inganni, pianti, lacerazione dell’anima. Dieci mesi così.
La mamma aveva perso venti chili.
Zio Aldo, zia Molly e zio Gigi si davano da fare a cercare cure alternative, farmaci miracolosi, provenienti dalla Svizzera, da San Marino, da Roma, da tutto il mondo, purché guarisse.


IL BABBO SE NE VA

"Sei pronta?…
"Sei pronta?", si domandava Lalla, mentre con un gesto distratto della mano sollevava il coperchio della caffettiera per vedere se stava salendo il caffè.
"Sei pronta? Sei pronta?…"
E quella domanda non le dava tregua, non le dava pace e, nonostante si sforzasse di ignorarla e di metterla da parte, come un vecchio abito smesso e sgualcito, ritornava a farsi presente ai suoi pensieri volutamente distratti.
"Sì", si disse. "Sono pronta. ti seguo, ti ascolto, faccio come vuoi tu."       
La voce interiore le domandava di fare un passo indietro nel tempo. Un anno indietro nel tempo.

Era un giovedì di ottobre, precisamente il 18 ottobre. La stanza semibuia, con quell’orribile odore stantio di chiuso, di marcio e di medicine, di caldo eccessivo, di corpi trepidanti e sudati di attesa. E tutto era quiete e silenzio, interrotto di tanto in tanto dal bisbiglio sussurrato di parole incomprensibili che si perdevano nell’aria pesante. Bocche dentro a facce che parlavano tra loro, senza nemmeno guardarsi addosso: chissà se riuscivano a sentire le proprie parole o soltanto quelle degli altri?
Lalla si volse verso una sola di quelle facce: era pallida e scavata di dolore, lo sguardo impietrito su quel corpo che giaceva immobile e silenzioso nel letto, rannicchiato su se stesso, come un feto troppo cresciuto, come un corpo mezzo abortito, un ammasso di ossa, rivestite da un cappotto di pelle taglia extralarge, che cadeva grinzosa ai lati di tutto, specialmente della vita. Si sentiva inquieta. Decise di uscire, di lasciare quei visi stravolti nella semioscurità di quell’attesa ossequiosa: sarebbe tornata più tardi. Sarebbe tornata. Guardò sua madre. Le pose una mano sul braccio gelato e si domandò quanto ancora avrebbe potuto reggere a quello strazio, quando sarebbe arrivato il momento in cui sarebbe crollata.         
<<Esco, mamma>>, le alitò sul viso ossuto. E il vapore di quelle parole si perse sul fondo di quegli occhi verdi, occhi ormai spenti.
Sei pronta?
Seduta sulla poltrona di nappa blu, sfogliava nervosa una rivista, fingendo di leggere con interesse un articolo che nemmeno vedeva. Gli occhi erano fermi, immobili, fissi su quanto in quella pagina di giornale andava oltre le stesse parole stampate e sprofondavano nelle parole che aveva incise nel cervello, che martellava, pulsava contro la scatola cranica, seguendo frenetico il ritmo del cuore e l’affanno di quello che restava del suo respiro. Ancora due persone e sarebbe toccato a lei. Il rumore dei phon era l’unico contatto col mondo reale. Teneva il cellulare agganciato alla cintura e tremava al pensiero di sentirlo vibrare.
"Non morire... non morire adesso, ti prego... aspettami... non morire senza di me..."
Voleva esserci. Voleva esserci nel momento del trapasso e ne aveva paura. Ma lo voleva: lo voleva con tutta se stessa. Era così che lui se ne sarebbe andato: con lei accanto, che gli teneva la mano ossuta e fredda, che gli accarezzava le tempie, che annusava il suo odore di morte, che lo guardava nel vuoto dei suoi occhi e nella sua disperazione. Così doveva andarsene da lei: sapendo che lei c’era, che non lo aveva abbandonato.
"Non morire, ti prego, non morire adesso, aspettami!  Resisti ancora un po’!"
Avrebbe fatto presto. Guardò l’orologio col cuore in gola. Compose le cifre che nell’arco di tutti quei mesi, quei lunghi, interminabili mesi, aveva composto migliaia di volte solo per chiedere: <<Come sta oggi?>> E per sentirsi rispondere: <<Come ieri.>> Ma che cosa sperava? Rideva di se stessa, della vana speranza (idiota speranza!) che avvenisse il miracolo, che la voce all’altro capo dicesse sta meglio oppure sta guarendo, se non addirittura e’ guarito. Che stupida! Quanto era ridicola a se stessa, chiusa in quei pensieri feroci, disgraziati e suicidi.
Avrebbe voluto ridere forte e vomitare fuori tutto il dolore che la stava ammazzando in quel preciso momento. Non lui: lei avrebbe voluto morire!
Fino a poco tempo prima aveva aspettato con ansia il momento, quasi fosse una festa, una macabra festa. Sì, voleva vivere il momento del passaggio come un evento felice. Per lui lo sarebbe stato. O forse no? Forse avrebbe avuto paura.
"Babbo, dimmi: che cosa si prova a morire davvero? raccontamelo, ti prego, raccontamelo adesso che non ci sei più. adesso che sei chissà dove e che nemmeno ricordo più il suono della tua voce, il colore dei tuoi occhi, il tocco delle tue mani, il calore di un tuo bacio …"
<<Pronto?>> La voce all’altro capo del telefono era atona e amorfa.
<<A che punto è?>>, domandò.
"Resisti, ti prego!"
<<C’è tempo>>, rispose.
<<E’ arrivato il dottore?>>
<<Non ancora.>>
<<Lui com’è? Cosciente?>>
<<Non so...>>
Da tre giorni non pronunciava alcun suono. Aveva la bocca arsa, le labbra secche, la lingua impastata. I denti, ingialliti dal fumo di migliaia di sigarette fumate, sporgevano oltre quello che restava di quelle labbra un tempo carnose, adesso troppo sottili e tanto, davvero troppo, secche. Lei ci spalmava quintali di burrocacao, intuendo l’arsura e la sete di quella pelle avvizzita. Bagnava il lembo del fazzoletto nel bicchiere e gli inumidiva le labbra. Quel 18 di ottobre, l’unico gesto volontario di quell’aborto di corpo fu il morso feroce dato a quel lembo di fazzoletto. Lei non riusciva più a sottrarglielo di bocca e lui lo succhiava voracemente, con un ghigno di sprezzo verso se stesso e verso la vita, un’espressione beffarda che se avesse potuto, se solo ne avesse avuta la forza, avrebbe gridato a pieni polmoni: <<Al diavolo tutto il mondo!>> E poi si sarebbe lasciato crepare. Ma nemmeno l’aveva, la forza di crepare.
<<Dici che ce la faccio, se arrivo tra un’ora?>>
Silenzio dall’altra parte.
"Ce la faccio sì o no? ce la faccio? Dimmi se ce la faccio, altrimenti pianto qui tutto e arrivo subito, anche con la testa bagnata!"
Ma come poteva pretendere una risposta certa? Come poteva, se solo Dio sapeva quando se lo sarebbe preso? Che cosa ne potevano sapere i viventi del mistero della morte, se mai li aveva sfiorati? Ma perché si trovava in quel posto, invece di essere con lui? Sì, adesso capiva, adesso capiva... La sua era stata una fuga: vigliacca! Aveva paura di vederlo morire e non aveva nemmeno il coraggio di confessarlo a se stessa. Per quello aveva preso appuntamento dal parrucchiere proprio quel pomeriggio. Perché non andarci un giorno prima o un giorno dopo? Perché non disdire? Perché non mollava tutto e non se ne tornava al suo capezzale? Perché’?
"Sì, me ne esco con la testa bagnata."
<<Adele, quanto mi ci vuole per essere pronta?>>, domandò alla ragazza dai capelli rossi.
<<Mezz’oretta ancora.>>
Fu la mezz’ora più lunga di tutta la sua vita. Pregò che le lancette scorressero veloci, ancora più veloci sull’orologio che aveva al polso, mentre chiedeva a Dio che il tempo si fermasse, là, in quella stanza buia.  

Adesso era di nuovo con lui.
Quando entrò in casa, fu la moglie di suo zio ad aprire la porta.
<<La mamma?>>, domandò subito con un velo di malcelata apprensione.
<<E’ di là, con lui>>, rispose la zia. <<C’è anche Maria Luisa. E lo zio Gigi, insieme a tua cugina.>>
C’erano quasi tutti.
<<Stiamo aspettando anche Mara: tua madre l’ha avvertita. Le ha telefonato in ufficio. Ha preso un taxi da Milano, per arrivare il più presto possibile.>>
Un taxi da Milano. il più presto possibile. Mara che tornava dal lavoro. Mio Dio, ma allora era vero? Stava succedendo davvero?
Entrò nella stanza: ormai c’era odore di morte imminente. Erano tutti addossati al comò, ai piedi del letto. La guardarono entrare. Salutarono. Ricambiò. I volti erano tesi, le gole tirate, gli occhi lucidi, gli sguardi lividi. Lalla si avvicinò a lui. Era disteso nella solita posizione ormai da tre giorni, rannicchiato sul bordo del letto: sembrava dover  cadere da un momento all’altro. Si sedette sulla sedia della cucina che sua madre aveva portato lì, per assisterlo durante la notte, altrimenti cadeva davvero. Era così che quella povera donna di sua madre aveva trascorso le ultime notti: seduta su quella sedia, con la schiena ricurva su di lui e la sua testa sulle ginocchia. Ed era così che si mise lei. Ma lui non appoggiò la testa sulle sue ginocchia. Si avvicinò con il viso e appoggiò la guancia alla sua. Forse gli stava dando fastidio. O forse aveva bisogno di quello. Come poteva saperlo lei? Faceva quello che si sentiva di fare. Lo baciò sulle labbra. Gli rimise il burrocacao. Aveva forse sete? Lei ne avrebbe avuta: respirava a fatica, rantolava e sibilava. Inumidì ancora il fazzoletto. Poi pensò a quello che avrebbe voluto al suo posto: avrebbe voluto bere, non bagnarsi le labbra. Allora provò ad avvicinargli il bicchiere alla bocca. Vide che era avido di quello che gli porgeva: sembrava un cucciolo affamato di latte materno. Annaspava verso il bicchiere con la punta della lingua e l’acqua gli si rovesciava addosso. Provò col biberon di sua figlia: la nonna l’aveva conservato per ricordo di quando era piccola. <<Babbo, hai sete?>>, domandò. Cercò una risposta nei suoi occhi: erano vitrei, appannati e inespressivi. Cercava di emettere un suono: era uno sforzo disumano e non gli usciva nulla, se non il fiato.
"Cosa posso fare per te, babbo? cosa posso fare per alleviare un poco le tue sofferenze? babbo... dimmi cosa posso fare, ti scongiuro.. mi sento così impotente. non posso più vederti soffrire così. Dieci mesi... dieci mesi di dolore. Dio, prenditi quest’uomo, abbi pietà! Babbo... ti tocco, ti accarezzo un braccio, quel braccio,scheletrito che penzola giù dal letto fuori dalle coperte. La mamma insiste che ti devo coprire, ma tu mi sembri voler respingere le coperte. Fa caldo qui dentro, un caldo infernale. Vorrei spalancare la finestra e fare entrare un po’ di luce e di aria pulita. La mamma dice che devi avere freddo, perché sei fermo. Forse ha ragione, ma io sento caldo per te. E so che anche tu lo senti. Perciò lascio che il tuo braccio penzoli fuori dalle coperte e ti accarezzo. Ti prendo la mano e tu riesci a stringermela. Un segno di presenza, di vigile presenza."
<<Sono qui, Babbo. Qui con te. Non ti lascio. Mi senti?>>, gli sussurrò all’orecchio. Tentò di muovere la testa.
"Sì, mi senti."
<<Stringi la mia mano, aggrappati a me: non ti lascio.>>
Arrivò Mara. Come vide il padre, si sentì male e scoppiò a piangere.
Da quanti giorni non ti vedeva, per reagire così?
Da domenica, aveva detto la mamma.
"Sei crollato così tanto in soli quattro giorni... Nemmeno me ne sono resa conto."        

Era quasi sera: Lalla aveva lasciato i figli a casa da soli tutto il pomeriggio. Sua madre la costrinse ad andarsene: doveva tornare da loro. Era la prima volta, da quando erano nati, che si era completamente dimenticata di loro. Ma non aveva voglia di andarsene: avrebbe potuto non rivederlo domani.
Ripensò alle parole di suo marito al telefono: <<Non puoi fare più niente per tuo padre, Lalla. Invece puoi fare ancora molto per i bambini. E lo devi fare. Vai a casa da loro: hanno bisogno di te.>>        
L’aveva odiato per quelle parole. Possibile che non riuscisse a capire che era lei ad avere bisogno di suo padre, di restare ancora un po’ con lui?   

19 ottobre, ore 5.45 del mattino.
Il telefono cominciò a squillare. Dino sollevò il ricevitore, mentre Lalla scalciava nel letto e gli intimava con voce dura e concitata di accendere la luce: aveva bisogno di guardare, aveva bisogno di vedere, nemmeno lei sapeva cosa, mentre lui parlava.
<<Oddio... quando?… Sì, non ti preoccupare... adesso glielo dico... Ciao.>>
Si voltò verso di lei, che lo guardò fisso negli occhi, senza battere ciglio. <<Ho già capito>>, disse. Si alzò quieta e, con gesti lenti, iniziò la sua routine quotidiana…
Lui se n’era andato. Senza aspettarla.


*


Il ricordo del padre era ancora molto vivo e presente, nonostante fossero passati tanti anni. Lalla si asciugò gli occhi col dorso delle mani e disperse lo sguardo lontano, oltre i vetri della finestra aperta. Si alzò un istante dalla sedia, lasciandola dondolare sul soffice tappeto di lana, e si diresse con passo incerto verso il vecchio comò, dove ancora conservava quella vecchia lettera d’addio che aveva scritto in gioventù, in occasione della morte del babbo. Ricordava di averla messa in una busta, che aveva riposto sotto una vecchia vestaglia di flanella. La ritrovò al suo posto, così come l’aveva lasciata. Tornò a sedersi sul dondolo, aprì la busta, estrasse la lettera e cominciò a leggere con la mente, mentre le labbra seguivano mute lo scorrere dei pensieri con movimenti lenti...

GRAZIE, BABBO

Guardo la tua fotografia sul muro: stai giocando con mio figlio; tra le mani quello che solo nella fantasia di un bambino può definirsi un mazzo di carte, in realtà sono solo foglie secche.
Osservo la tua espressione sbalordita, mentre fingi di valutare i punti che hai in mano e mediti la prossima mossa, lo sguardo attento e fisso su una foglia.
E il mio bambino in maniche di camicia, col cravattino blu e i capelli tagliati a caschetto…
doveva avere circa cinque anni, un po' meno, forse.
Guardo la tua foto e un nodo mi stringe la gola. La tua camera è nella penombra, le persiane chiuse. La luce fioca dell'abat-jour sul comodino attenua i colori intorno e sfuma i contorni degli oggetti.
Babbo... Babbo mio...
Il mio sguardo scorre tutt'intorno nella stanza. Ogni cosa parla di te: le tue fotografie, le medaglie delle bocce dentro al medagliere, il tuo cuscino, i fazzoletti nel cassetto, che non so quante volte ti ho portato via, chiedendoli in prestito, io, sempre senza il mio o con uno comunque sempre troppo piccolo, per non avere bisogno del tuo. Li conservo ancora quei fazzoletti enormi.
Ecco, c'è anche quella vecchia foto ingiallita, incorniciata, appesa al muro accanto all'armadio, dove tu eri solo un ragazzo insieme ai tuoi amici e ai tuoi fratelli. Prima o dopo una partita di calcio? Probabilmente prima: eravate tutti così composti, tutti così ordinati, tutti così giovani e sereni!
Ieri mia figlia è salita sulla tua auto, che ho preso in prestito in questi giorni, e ha detto, tirando su il naso: <<Mamma, senti: c'è profumo di nonno!>>
Ed era vero: c'era profumo di te.
Io voglio ricordarti così, Babbo mio, sorridente come un fanciullo stupito della vita, mentre giochi coi miei figli, mentre fai lo stupido con Gianmarco e ti fai curare l'influenza dal Dottor Pera, che ti misura quaranta metri di febbre, con la carta igienica sulla fronte.
Voglio ricordarti con Ilaria nello zaino sulle tue spalle, mentre ti arrampichi su un sentiero di montagna, sotto il caldo sole di agosto. Voglio ricordarti con la sigaretta in mano, gli occhiali calati sul naso, le gambe accavallate, le parole crociate sulle ginocchia e l'aria assorta ed impegnata. Voglio ricordarti nelle tue passeggiate per le vie di Sant'Ambrogio, col cappello, il paltò e i guanti caldi. Voglio ricordarti col tuo impegno quotidiano di portare a scuola i miei bambini, col tono un po' scherzoso con cui la sera mi dicevi: <<Allora, alle cinque domattina?>>. Voglio ricordarti con quella straordinaria energia con cui sapevi far giocare i tuoi nipoti, col sapore della vita in bocca, coi tuoi discorsi a volte saggi, a volte un po' polemici, con l'inconfondibile suono della tua soffiata di naso, mentre sali le scale di casa mia e il tuo borbottio, mentre ti schiarisci la voce. Voglio ricordarti soddisfatto della vita, entusiasta nell'assistere allo spettacolo di Natale di Gianmarco, orgoglioso per la sua prestazione, mentre dicevi a tutti: <<E' mio nipote quello!>>. Voglio ricordare la tua espressione nel giorno della mia laurea. Voglio ricordarti felice nel giorno del matrimonio di mia sorella, immaginarti mentre balli ancora insieme a lei vestita di bianco.
E voglio ricordarti nel giorno del tuo matrimonio, emozionato come un bimbo, accanto alla tua sposa, mentre stringi forte la sua mano e cerchi di stringere la vita ancora, una volta ancora...
Di te voglio poter ricordare tutti i momenti più belli che sono stati davvero tanti; e voglio ricordarti per sempre così: felice di avere vissuto.
Grazie, Babbo, per esserci stato!


La lesse tutta d’un fiato, col cuore in tumulto e gli occhi gonfi di lacrime.
Avrebbe voluto chiudere gli occhi di nuovo e continuare a perdersi tra i vecchi ricordi, avrebbe voluto rivedere il sorriso felice dei figli, mentre crescevano, incrociare di nuovo lo sguardo di Dino, risentire il suono della sua voce rimbombare nell’alto soffitto della stanza. Avrebbe voluto...

Notte agitata...
...di fumo, di nebbia e latrati di cani. Il verso di una civetta, lugubre nel buio del bosco, le aveva tenuto compagnia.  
Quando la sveglia era suonata, lei aveva aperto gli occhi a stento, madida di sudore nella camicia da notte incollata alla pelle. Si era messa a sedere nel letto, senza accendere la luce. Lentamente aveva fatto scivolare una  gamba fuori dalle lenzuola, poi l'altra. Col piede, era andata in cerca di una ciabatta. Poi l'altra. Si era alzata a fatica e aveva trascinato i passi pesanti fuori dalla stanza, in direzione del bagno.          
Fuori albeggiava e vampate di raggi di sole avevano acceso il cielo di un rosa aranciato. Aveva aperto la finestra e aveva respirato l'aria del mattino a pieni polmoni.
Un brivido di piacere le aveva percorso la schiena. Aveva raddrizzato le spalle, si era avvicinata al lavandino e, finalmente, aveva acceso la luce.          
Guardandosi allo specchio, aveva sorriso con aria stanca. Aveva il viso disfatto. Aveva raccolto i capelli, bianchi come la neve, dietro la nuca e si era passata una mano leggera sul volto, accarezzandosi le rughe profonde che solcavano la pelle. Aveva lo sguardo annacquato. Di vita, di stanchezza, di gioie e dolori vissuti.           
Nella casa, a farle compagnia, solo il silenzio. Nemmeno il verso della civetta. Nemmeno il latrare dei cani.  
Lalla si sentiva ogni giorno più stanca. 
Aveva sciacquato il viso con acqua gelata, poi si era lasciata trasportare dai passi pesanti fino in cucina, per preparare la colazione.          
Passando per il salotto, aveva sorriso alle foto dei suoi cari, appese alla parete, ed era andata col pensiero ai figli ormai grandi, al marito partito per un lungo viaggio senza ritorno, a quella che era stata un tempo, alla sua gioventù.       
Goffamente e con movimenti lenti delle mani aveva apparecchiato la tavola: da ottant'anni sempre gli stessi gesti, da ottant'anni sempre la stessa colazione: yogurt, crostini spalmati di miele e una tazza di caffè nero bollente.
Poi si era lasciata cadere, pesante, sulla solita sedia: quello era da sempre il suo posto. Aveva immaginato i volti dei figli bambini che le sedevano di fronte. Aveva sentito ancora la presenza del marito che le stava di fianco.       
Aveva chiuso gli occhi e col pensiero si era finta ancora a trent'anni. Il profumo della vita le era entrato nelle narici, misto all'odore intenso del caffè. E lo aveva respirato. Lo aveva respirato a fondo.         
Non aveva voluto riaprire gli occhi e aveva deciso di rimanere così, a guardare la vita passarle davanti come la pellicola di un film.         
Tanti nomi avevano preso forma nei meandri della memoria, anch'essi rugosi. 
Aveva riaperto gli occhi, si era alzata ed era andata in cerca di quella vecchia scatola di legno che aveva conservato, chiusa nell'armadio della camera. L'aveva aperta: odorava di muffa. Aveva rovistato tra le carte in cerca di vecchie fotografie ingiallite, poi si era messa a sedere sulla sedia a dondolo, accanto al letto, le aveva posate sulle ginocchia, aveva inforcato gli occhiali e aveva cominciato a guardarle una ad una.

… Finché il sonno l'aveva colta. Un lungo, interminabile sonno infinito. 

Fu così che la trovarono: ancora seduta su quella sedia, con le fotografie e quella vecchia lettera ingiallita sparse sulle ginocchia.

Fine

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