lunedì 9 aprile 2012

VITA DA BAMBINI... di altri tempi


   Era l'anno 1943 e la piccola Marisa Pierangela veniva condotta in un orfanotrofio lontano da casa. All'epoca aveva solo tre anni. Il padre era morto in guerra e la madre non poteva più occuparsi di lei né degli altri figli, tre maschi, anch'essi piccoli.
Gli assegni familiari e la pensione da vedova di guerra dovevano servire a coprire la retta dell'istituto.
Marisa Pierangela sarebbe uscita da quell'orrendo posto solamente a quattordici anni.
Oggi Marisa Pierangela è una donna di sessantacinque anni, ma ha ricordi ancora chiari di quel tempo, dei maltrattamenti subiti, delle levatacce alle cinque di mattina, dei pavimenti che ha dovuto lavare ogni giorno, piegata sulle ginocchia; dei geloni alle dita della mani, per avere lavato panni al lavatoio con acqua gelata, senza guanti, e delle iniezioni che ha dovuto fare per colpa dei reumatismi; dei calli dovuti ai lavori manuali; delle percosse subite; delle rape, del sangue cotto di bue che doveva mangiare insieme alle patate bollite, dell'olio di ricino, che la obbligavano a bere fino all'ultima goccia.
Ogni volta che sua madre andava a trovarla, la piccola la supplicava di portarla via di là, ma la donna non poteva: come avrebbe potuto occuparsi lei? E per Marisa Pierangela, tutti quei "non posso" stavano a significare "non ti voglio bene", perché lei era soltanto una bimba e non poteva comprendere le ragioni dei grandi.   
Ogni volta, chiedeva notizie dei fratelli, separati da lei in altri istituti, più vicini a casa, e la madre le raccontava sempre di Giancarlo, che scappava tutti i giorni, scavalcando il muri di cinta. Così, se lo ritrovava puntualmente a casa ed era costretta a riportarlo all'orfanotrofio. Alla fine dovette desistere e decise di tenerlo a casa, insieme al fratello maggiore che si sarebbe occupato di lui. E Marisa Pierangela stava ad ascoltare dei due fratelli che erano riusciti a tornare a casa, a vivere di nuovo con la loro mamma e si domandava "perché io no? perché devo restare qui?"...         
La madre le rispondeva che Eugenio, il maggiore, ormai poteva lavorare e contribuire al sostentamento della famiglia, mentre Giancarlo poteva essere utile, perché, di notte, andava a rubare legna e carbone per riscaldarsi. Povero Giancarlo! Aveva le mani tutte graffiate dalle robinie, ma, grazie a lui, sua madre  e suo fratello potevano dormire al caldo, col carbone  che ardeva nella stufa. Eugenio dormiva nel letto con la madre, mentre al fratello più piccolo spettava il posto più scomodo: il vecchio baule. Giancarlo conserva ancora oggi quel baule...
Almeno Pierangela aveva un letto nel quale dormire, aveva sempre qualcosa nel piatto, da mangiare, era accudita e al sicuro dai bombardamenti! Ma che cosa ne sapevano gli altri di quello che provava, di quello che sentiva, di quello che doveva sopportare, dei soprusi, delle violenze psicologiche quotidiane che doveva sopportare? E così cresceva esile, piccola, magra ed emaciata, ma con spalle larghe e forti, che le avrebbero permesso, un giorno, di sopportare tutti i dolori che la vita aveva ancora in serbo per lei...
A sentire parlare questa donna, ad ascoltare la sua testimonianza, mi sono venute le lacrime agli occhi e ho pensato a che razza di infanzia deve aver vissuto, se di infanzia si può parlare... E ho pensato ai miei figli e anche a me stessa, a quanto sono stata fortunata a vivere la vita che ho vissuto finora, protetta e sicura, lontano dal male e dai pericoli, amata dai miei genitori, che hanno saputo regalarmi un'infanzia felice e piena d'amore e di forza... E penso a tutti quei bambini di ieri e di oggi che quest'infanzia non l'hanno mai vissuta...   
     

Ah, a proposito: quella donna E' MIA MADRE.     


Lau

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