Quinto
piano… una rampa di scale infinita… poi ecco la stanza. Mi soffermo un istante,
prima di entrare, e prendo fiato: l’aria è calda e pesante, si respira odore di
medicinali, di disinfettante, di chiuso, di corpi malati. Tre letti: al centro
lo zio. Entro.
C’è
Giorgio, l’amico di famiglia, da sempre vicino nei momenti importanti e anche
in quelli che non lo sono. Se ne sta seduto su di una sedia di plastica grigia,
lo sguardo fisso sul suo amico, che dorme di un sonno profondo. Mia madre mi
segue silenziosa: non oso nemmeno immaginare quali siano i suoi pensieri, quali
i ricordi che riaffiorano alla sua mente. Sono gli stessi che ho io. Di colpo
catapultate indietro nel tempo di cinque anni: altra stanza, altro ospedale,
altra persona. Non posso fare a meno di frenare le lacrime, che affiorano
contro la mia volontà, mentre le supplico di rimanere lì, tremolanti
nell’occhio, senza scendere lungo le guance: tornate indietro, per favore! E mi
ascoltano. Ma il nodo alla gola si fa sempre più stretto e quasi mi toglie il
respiro. E quello, no, non ce la faccio a fermarlo. Deglutisco a fatica e con
dolore. Finalmente mi escono le parole: “Ciao, Giorgio!” Mi avvicino all’amico,
che si alza e mi viene incontro. Lo abbraccio e lo bacio sulla guancia. “Ciao,
stellina!” Mi fa una carezza, amorevole come un padre. L’ultima volta che l’ho
visto era il giorno del funerale del babbo. Giorgio lo aveva assistito come un
amico fedele fino all’ultimo istante, presente ogni giorno, unico tra tutti gli
amici. Per me è molto più di un amico: è uno di famiglia. Lo ricordo ancora,
quand’ero piccola, quando veniva con la moglie Olivia a cena a casa
nostra. Mi accompagnava a letto, prima
di andarsene, mi faceva ridere con le sue battute e mi diceva che ero una bimba
bellissima, che da grande avrei avuto tanti mosconi attorno ed io chiedevo
perché tante mosche… I mosconi… anche zio Gigi me lo diceva…
Zio…
zio, mi senti? Mi avvicino al suo letto e lo guardo.
“E’
incosciente, Laura” Dice Giorgio “non può sentirti”. Poi guarda mia madre:
“Assomiglia sempre di più al Mondino…” E a lei si riempiono gli occhi di
lacrime.
Mondino…
il mio babbo… Io non trovo questa grande somiglianza. Lo zio Gigi è un’altra
cosa. Gigi ricorda lo zio Antonio, con quei lineamenti affilati, il naso dritto
e le labbra sottili.
Gigi
è sempre stato un uomo pieno di vita, un inesauribile. Compone canzoni, da un
po’ di anni. Scrive anche poesie. Tempo
fa mi aveva chiesto se gli scrivevo qualche testo, ma io non scrivo canzoni. Ci
ho provato: sembravano più romanze. Sono sempre troppo prolissa.
Mi
faccio più vicina e gli prendo una mano, la destra. La sinistra è paralizzata,
come tutta quella parte del corpo. “Ciao, zio, sono Labbrina…” Lo zio mi
chiamava sempre così, quand’ero piccola. Mi stringe la mano e fa una leggera
smorfia con la bocca. Mi sente! Allora mi sente! “Zio, c’è anche la mamma con
me” Stessa smorfia. Altro che in coma: è cosciente, capisce, può sentire! Lo
bacio sulla fronte. Si sforza di muovere le labbra: vuole dire qualcosa.
“Che
c’è? Cosa vuoi dirmi? Sono qui”. Uno sbuffo, uno sforzo disumano e un suono gli
esce dalla bocca, ma disarticolato, incomprensibile. “Non ho capito” gli dico.
E guardo mia madre, in cerca di aiuto. “Non riesco a capire”. Lui ci riprova e
risbuffa: lo stesso suono, adesso un po’ più chiaro, ma comprendo solo a metà.
Ci riprova: deve dirlo. E ce la fa. PARLAMI DI VITA, mi dice… PARLAMI DI VITA…
Ripete. Una lacrima rotola e si schianta sul lenzuolo, sorda, discreta, timida.
Sembra quasi volermi chiedere scusa per essere scappata. Vorrei tanto parlargli
di vita, ma non viene niente da dire. E mi sento in colpa. Non ho parole di
vita per lui, in questo momento. Solo
silenzio e un dialogo muto. Gli tengo la mano: non riesco a fare nient’altro.
Poi di nuovo il silenzio, di nuovo quel suo respiro affannoso e l’immobilità
del suo corpo.
“Dorme”
dice Giorgio. “E’ da ieri sera che non apre più gli occhi.
Il
mio sguardo cade sull’uomo nel letto accanto: quanti anni avrà? A occhio e
croce una novantina, forse qualcuno meno. E’ solo: nessun parente in visita. E’
solo e agitato. Rotola lo sguardo a destra e a sinistra, agita le gambe,
seminude, scoperte, fuori dal lenzuolo. Sono magrissime e la pelle è bianco
latte. Gli occhi cerulei sono velati, lo sguardo torbido, come acqua di uno
stagno melmoso. E’ rosso in viso.
Una
forza che va al di là di me mi spinge ad avvicinami al letto. Mia madre è
intenta a parlare con Giorgio e io mi allontano inosservata. Mi avvicino
all’uomo e lo guardo negli occhi. Anche lui mi fissa. Si chiederà chi sono: non
un’infermiera (non ho il camice), non una parente (non mi ha mai vista). Si starà chiedendo perché
sono lì, che cosa voglio da lui. Mi fissa in silenzio e lo fisso con lo stesso
silenzio. Poi riprende ad agitarsi. “Ha bisogno di qualcosa?” Gli domando.
Farfuglia sillabe incomprensibili. Fa un caldo infernale in questa stanza.
L’uomo è proprio sotto la finestra, dove batte il sole. La luce e il calore
devono infastidirlo. Abbasso la tapparella, finché il suo corpo non resta in
ombra. Gli tocco la fronte e il viso: è caldo e sudato. Mi guarda. Lo tocco. Lo
accarezzo sulla fronte, sul viso, sulle braccia scoperte. Gli prendo la mano.
Leggo il suo nome sulla cartella appesa
al letto: Guido. Guido e basta. Al posto del cognome c’è scritto FRULLATO. La
privacy…
Guido
è legato: ha i polsi legati alla sponda del letto. E’ pieno di tubicini, canne
e cannette, nel naso, nel collo, nelle braccia. Che cosa provi, Guido? Come
stai? Come ti senti, qui solo in un letto d’ospedale, senza nessuno che parli
con te, che ti consideri, che ti rivolga un pensiero? Che cosa desideri? Cosa
pensi della tua vita in questo momento? Chi sei? Perché sei qui? Chi sei stato
prima di arrivare in questo posto? Quante persone ti hanno amato e quante
soffrono per te? Hai paura? Cosa aspetti, forse la morte? Di che cosa hai
bisogno? Cosa vorresti dire, esprimere, quali sono i tuoi sentimenti, i tuoi
pensieri, le tue paure? Cosa posso fare io adesso, in questo momento, per te? Amore. E’ tutto quello che vorrei io in
un momento simile. Amore e presenza. Amore e sentire che c’è qualcuno, che non
sono sola, che posso aggrapparmi alla vita, aggrappandomi a quella di un’altra
persona. Aiuto, appoggio, sostegno, comprensione… Tutto questo vorrei io. Tutto
questo, credo, vorrebbe qualsiasi essere umano. E vorrei essere trattata come
persona, non come numero, come letto, come oggetto, come un essere qualunque.
Ho un’anima che urla, che grida qualcosa alla vita che fugge, che urla agli
altri che non mi stanno a sentire, perché non posso, non riesco a parlare, ma
urlo, urlo urlo…. ASCOLTATEMI, VI PREGO! ASCOLTATEMI ANCHE SE NON HO PAROLE,
AIUTATEMI A VIVERE, HO PAURA DI MORIRE. NON LASCIATEMI ANDARE DA SOLO COSI’,
SOLO… AIUTATEMI! E’ questo che gridi di dentro, Guido? Io te lo leggo negli
occhi.
Lo
accarezzo a lungo sulla fronte. Bagno una garza, che rubo dal suo cassetto, e
gliel’appoggio sulle labbra. Guido succhia avido. Anche il babbo faceva così.
Aveva la bocca arsa e pure Guido ce l’ha. Bagno un’altra garza e gliela passo
sul viso e sul collo. “Ha caldo?” Gli domando. Fa cenno di sì. Gli scosto il
lenzuolo. Con le mani legate cerca di denudarsi, afferrando il lembo del camice
che ha addosso. Resta a torso nudo. Non faccio nulla per coprirlo. Lo accarezzo
sul petto. Ha lunghi peli bianchi che lo ricoprono. Ha le unghie lunge, nelle
mani e nei piedi. Potrebbe graffiarsi. Perché nessuno gliele taglia? La pelle è
secca e screpolata, al limite della spaccatura: avrebbe bisogno di crema. E’
disidratato. Continuo ad accarezzarlo. Adesso Guido mi guarda con occhi più
sereni: non si chiede più chi io sia, si affida a me. E io lo coccolo come
fosse un bambino, come fosse mio figlio. Gli sorrido e lo accarezzo, finché si
addormenta. Poi mi allontano da lui. Ho addosso gli occhi di mia madre che
piange e quelli di Giorgio. “Ti ricorda tuo padre?” Mi domanda lui. No. Non mi
ricorda nessuno: solo un uomo che soffre e ha bisogno di amore. Torno vicino
allo zio, ma ormai è sprofondato nel sonno profondo, nello stato di
incoscienza. Si è fatto tardi: è ora di tornare
casa. Guido si sveglia, apre gli occhi e mi cerca. Riprende ad agitarsi.
Torno da lui, gli faccio una carezza: “Devo andare”. Gli bisbiglio. “Ciao,
Guido!” Ed esco dalla stanza, coi suoi
occhi che mi seguono finché sparisco oltre la porta. CIAO, GUIDO, mi ricorderò
dei tuoi occhi.
Lau
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