Amsterdam...
Non ce la faccio più dalla sete! E’ dalle 5 del mattino che non bevo un
goccio d’acqua, per evitare la nausea in viaggio, e sono già le tre del
pomeriggio.
Entriamo in un bar e ordino mineral water no gas (non sopporto le bevande
gasate, mi scatenano il mal di stomaco) Ecco, ti pareva: frizza! Mio marito
cerca di sgasarla, agitandoci dentro un cucchiaino. Niente da fare.
“Excuse me, can you
bring me an ice tea, please?” Chiedo, nel mio inglese stentato.
Finalmente arriva, con tanto di fetta di limone. Non ci posso credere: gasato
pure il tè!!! Vuoi vedere che ad Amsterdam è gasato anche il caffè?
Bevo lo stesso: meglio il mal di stomaco che morire disidratata.
Raggiungiamo l’albergo.
Carichiamo i bagagli in ascensore e saliamo al quinto piano.
L'ambiente è confortevole e tranquillo, almeno così pare.
Siamo andati in cerca di un hotel silenzioso, tramite internet, lontano
dal rumore, pur rimanendo in centro, e abbiamo trovato questo, con stanza
direttamente sul canale, dove non passano auto. Che meraviglia, almeno si può
dormire!
Col cavolo! Aria condizionata a manetta, che ogni 20 minuti parte con un
casino pazzesco! It’s no possible (tradotto all’italiana: che sfiga!!!)! Meno
male che io ho portato i tappi per le orecchie!
Nel bagno è affisso un cartello alla parete, in cui si specifica che è
vietato fumare cannabis in albergo e che la trasgressione comporta una multa di
non ricordo quanti euro. Una cosa normalissima, direi (!?!): ne ho uno anch'io
nel bagno di casa mia!
Disfiamo le valigie e ci accingiamo a compiere il nostro primo giro per
la città.
Ascensore o scale? Scale, ovviamente! Dei salutisti ginnici come noi non
prendono l’ascensore. Cominciamo a prendere le misure, pensando che dobbiamo
scendere cinque rampe: i gradini sono strettissimi. Pazzesco! Ma che piedi
hanno gli olandesi? Il mio (un misero 37) non ci sta, messo normalmente. Scendo
le scale di traverso, aggrappandomi bene al corrimano, mentre Ila, davanti a
me, le scende a papera, con i piedi completamente aperti all’infuori, ma è una
scheggia, mentre io una lumaca con la paura di inciampare. Sarà così solo il
nostro albergo? Risposta postuma: No.
…
Amsterdam è una città bellissima, molto pittoresca, ma è un vero caos, a
cominciare dalle strade: auto che sfrecciano in ogni direzione, bici che ti
passano di fianco, davanti e di dietro, ad una velocità assurda (pare che
gareggino tra loro), moto (tutte Vespa!) e taxi a… PEDALI. Da non credere! Che
razza di cosce devono avere gli “autisti”, per trasportare la gente?!? Mi
ricordano tanto la mia prima macchinina a pedali, quella con la quale a 4 anni
mi sono schiantata, giù per la discesa di casa mia. Beh, certo, qui non si
corre questo rischio: le strade sono tutte in pianura (eccetto i ponti sopra i
canali)!
La Venezia del Nord, così viene chiamata questa città, ma di Venezia ha
ben poco, canali a parte.
La cosa che più colpisce sono proprio le biciclette: se ne vedono a
centinaia. Appena usciti dalla Stazione Centrale, si rimane di stucco, nel
vedere il parcheggio delle bici, un parcheggio a più piani. E le persone, poi!
Vanno in bicicletta vestite eleganti. Si vedono donne in tacchi a spillo,
fasciate in abiti che io indosserei solo per frequentare ambienti di un certo
tipo, uomini in giacca e cravatta, con la ventiquattrore e i mocassini in
cuoio. Da qui, capiamo che quello è il loro mezzo di trasporto usuale. Si
possono distinguere i turisti dagli abitanti del posto da come pedalano: i
turisti si fermano agli stop, ai semafori, danno la precedenza a destra… gli
abitanti no, sfrecciano via come schegge, incrociando le auto con un
sincronismo perfetto. I semafori hanno il contasecondi, per indicare il
passaggio dal rosso al verde, per i pedoni, ma il verde dura pochi secondi e
bisogna correre, per attraversare la strada, se non si vuole finire sotto una
macchina. Il caos è totale: pedoni, auto, bici, moto, taxi, tram, rumore di
campanelli… aiutooo…!!!
E la gente? Ce n’è di ogni razza, colore e religione, per dirla come le
formule dei libri di geografia (e di catechismo, aggiungerei). Senti parlare
ogni lingua. Molti gli spagnoli, forse la maggior parte.
Allora, che c’è da vedere in soli quattro giorni? Guida alla mano,
crocettiamo con la mia penna-rossetto le nostre mete: Van Gogh Museum, Museum
het Rembrandt, Rijskmuseum, Teathre Museum, Casa di Anna Frank, Casa di
Rembrandt, mercato dei fiori e programmiamo il giro in battello. Ovviamente non
può mancare la tappa alla stazione a vedere i treni, la passione di mio marito
(non c’è posto, in cui siamo stati, in cui non si sia fatta una tappa di almeno
mezz’ora alla stazione, con foto e riprese delle locomotive e della
segnaletica. Ormai ci ho fatto il callo…). Lui conosce i nomi delle locomotive,
i codici e tutti gli orari. Lo stesso dicasi per i voli aerei nazionali,
internazionali e intercontinentali. Quando vede un aereo in cielo, sa dirti di
quale si tratti e persino la rotta. Ma come cavolo fa a saperlo, mi domando?
Secondo me spara a caso… “Non vedi? Va di là, non può che essere quello
delle... per…” Oppure “Non vedi la scia? Ha quattro motori, non può che
essere…”. Vabbe’, se lo dice lui…
Sulla guida turistica, troviamo indicato il famoso quartiere a luci rosse
e decidiamo che è meglio evitarlo, con Ila minorenne (ha solo tredici anni). E
poi non si sa mai che gente si possa incontrare da quelle parti. E invece,
senza accorgercene, ci finiamo dentro, la prima sera, mentre siamo in cerca di
un ristorante dove cenare. Capiamo subito di esserci infilati in una via
diversa. La gente ci guarda passare come se stessimo facendo la passerella. Qui
tira un’aria che non mi piace: meglio tornare indietro. Vogliamo evitare
situazioni pericolose (ci hanno raccontato di tutto, prima di partire), ma
soprattutto, voglio evitare a mia figlia di vedere cose sconvenienti.
Alla faccia delle cose sconvenienti!!! In una via del centro, decidiamo
di fare tappa in un negozio, per acquistare dei souvenirs. Ve li lascio
immaginare!!! Una bimba di colore sfoglia cartoline. Dai, che ne prendiamo
qualcuna da spedire! Oscene! Assurde! “Ila, non guardare!”. Mi sembra di
essere una puritana, ma, per la miseria!, certe cose non le ho mai viste
nemmeno io! Meglio uscire di qui!
La mattina seguente, uscendo dall'albergo, incontriamo un gruppo di
ragazzi che prendono il sole, sdraiati su materassi, davanti alla porta
d'ingresso di un'abitazione, proprio sulla strada, bottiglia di birra in mano e
sigaretta sospetta in bocca. Pensare che io, per prendere il sole sul balcone
di casa, bardo tutta la ringhiera con asciugamani per non essere vista! Basta,
ho deciso: quando rientro, anch'io materasso davanti al portone! E se poi il
postino mi guarda male? "Che problema c'è? Mai stato ad Amsterdam?".
Le case della Venezia del Nord hanno finestre immense e sono tutte
storte, pendenti in avanti, con ganci attaccati al soffitto, che servono per i
traslochi: i mobili non passano dalle porte, che sono molto strette, e vengono
issati e fatti entrare dalle finestre. La pendenza dei muri serve per evitare
che la mobilia, durante la salita, possa danneggiare la facciata (secondo me
anche per non rovinare i mobili stessi. Te li vedi arrivare in casa tutti
raspati?) . Molte case hanno la porta ad un livello inferiore, rispetto a
quello della strada, e vi si accede tramite una scala ripida e stretta.
Notiamo alcune finestre illuminate da luci rosse soffuse: sono quelle
delle donne in vetrina, che si mettono in mostra e in vendita, per i
passanti. Ne vediamo qualcuna.
Mentre siamo alla ricerca di un posto in cui mangiare, attraversiamo un
quartiere in cui non troviamo nemmeno una donna (Ila ed io siamo le uniche).
Che strano! Strano??? Strano per noi italiani, forse, ma qui è tutto
normale! Si tratta, infatti, del quartiere gay. Ecco che mio marito
affretta il passo. Chissà perché?
Certo che Amsterdam è tutto un altro mondo!
Ma veniamo alla cultura...
Non starò qui a raccontare dei vari musei visitati, perché alla fine, che
cosa vuoi raccontare di un museo?
Ma voglio soffermarmi su quello che mi ha colpita di più: la casa di Anna
Frank. Avevo letto alle elementari il suo diario e avevo visto il film, ma
niente a che vedere con l’entrare nella casa nella quale è vissuta prigioniera,
durante la guerra, e con il toccare con mano.
La casa-museo conserva alcuni oggetti legati alla sua vita, ma la cosa
più impressionante sono le testimonianze di chi l’ha conosciuta, registrate e
proiettate su schermo in quasi ogni stanza, e il trovarsi nello stesso ambiente
nel quale è stata lei. L’emozione per me è grandissima e violenta, tanto che non
sono riesco a controllare le lacrime: mi scendono da sole. Ila mi si avvicina e
dice: “Ma tu non ce la fai!” (espressione tipica dei ragazzi di oggi) “Sei
proprio messa male, se piangi per così poco! Ma come si fa?”.
Non so dirti, figlia mia, come si faccia, ma posso dirti che ho il cuore
gonfio di angoscia a pensare a quello che ha vissuto quella ragazza, a vedere
le finestre oscurate da tende nere, perché non si sapesse che la casa era
abitata (lei e la sua famiglia avevano trovato rifugio sopra ad un magazzino,
aiutati da alcune persone), a leggere sullo specchio del suo bagno una frase
del padre, che si rivolgeva ai figli, bisbigliando di non fare rumore, di
muoversi piano, di camminare con passo leggero, di sussurrare, perché nessuno,
di sotto, doveva sentire che c’era qualcuno di sopra, altrimenti li avrebbero
scoperti e uccisi. Ho il cuore che scoppia, mentre osservo le foto,
raffiguranti attori e attrici, ritagliate dai giornali dell’epoca, che Anna
appiccicava alla parete della sua stanza, per animarla un po’, e nel vedere
quel disegno, fatto da lei. Mi fa male il petto, mentre salgo le strette scale
in legno che portano al piano superiore, sapendo che quelle stesse scale le ha
salite lei prima di me, quelle stesse scale, figlia mia… Lei, Anna l’ebrea, ed
io, dopo di lei, Laura non ebrea, ma che sarei potuta essere al suo posto
nemmeno tanti anni fa.
All’uscita, la statuetta dell’Oscar vinto dall’attrice Shelly Winters
nell’interpretazione del film sulla vita di Anna Frank, e quella dedica al padre
di Anna, l’unico della famiglia sopravvissuto all’olocausto. La Winters aveva
promesso che, se avesse vinto l’Oscar, lo avrebbe donato al museo. Ed eccolo
qui, davanti a noi, con tutta la tragedia che rappresenta.
Tutto qui, bimba mia. Tutto qui…
Lau
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