CORSO DI
AGGIORNAMENTO DEL SETTEMBRE 2008
RELATRICE: DOTT.SSA AMALIA MINEO PSICOTERAPEUTA
INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO
02/09/2008
(appunti personali, non rivisti dal relatore)
RELATRICE: DOTT.SSA AMALIA MINEO PSICOTERAPEUTA
INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO
02/09/2008
(appunti personali, non rivisti dal relatore)
OBIETTIVI
GENERALI DEL CORSO:
q
Confrontarsi su come sollecitare l’interesse e la
motivazione degli studenti, considerando sia gli aspetti cognitivi sia quelli
affettivi dell’apprendimento
q
Individuare le cause e ipotizzare gli interventi atti
a diminuire il disagio socio-culturale, che interferisce negativamente con
l’apprendimento, dei ragazzi e delle loro famiglie
q
Migliorare la relazione scuola-famiglia, al fine di
creare una sinergia che favorisca lo “star bene” a scuola di tutti i
protagonisti del processo di insegnamento-apprendimento
CONTENUTI:
q
Interesse e motivazione all’apprendimento
q
Il disagio socio-culturale di allievi e famiglie
q
La comunicazione fra insegnanti-allievi-famiglie
METODI:
q
Momenti di confronto e input teorici per fissare i
contenuti emersi.
PRIMO
INCONTRO:
INTERESSE E
MOTIVAZIONE ALL’APPRENDIMENTO.
Si parte con
una domanda, rivolta dalla psicologa alla platea dei docenti:
Che cosa
significa, per voi, INSEGNARE?
Esitazione?
Pochissima, solo iniziale, nell’attesa che qualcuno prenda la parola per primo.
Figuriamoci se un docente non ha la risposta pronta ad una simile domanda!
Ed ecco, a
raffica, una dopo l’altra, le risposte che vengono da più parti:
Þ
Trasmettere un sapere
Þ
Fare acquisire desiderio di conoscenza
Þ
Stimolare la curiosità
Þ
Stabilire una relazione
Þ
Fornire un modello (di relazione/sapere)
Þ
Fornire un metodo di apprendimento/studio
Þ
Definire i ruoli (docente/discente)
Ed ecco la
seconda domanda:
Che cosa
significa IMPARARE?
Þ Acquisire competenze (saper fare, calato nella situazione reale)
Þ Acquisire una capacità critica e di analisi
Þ Saper esprimere un giudizio
Þ Essere capaci di scegliere
Þ Non formarsi pregiudizi
Þ Accogliere ciò che dice l’insegnante, perché si ha fiducia in questa figura
Si
discute sui vari punti, ascoltando le diverse opinioni ed interpretazioni. Ci
si sofferma, in particolare, sul valore del termine giudizio e sull’azione
stessa del giudicare, uno dei compiti/doveri che la nostra professione
comporta. La discussione si fa animata sul giudizio stilato nei confronti
dell’alunno e sulla sua valenza. E’ opinione comune che occorre giudicare il
prodotto e non la persona! Sembrano cose scontate, ma quanto è lontana, a
volte, la teoria dalla pratica! Ogni docente ha ricevuto, nell’arco della
propria formazione, un’infarinatura generale di pedagogia e tutti noi sappiamo
che è sbagliato giudicare le persone o, peggio ancora, farsi dei pregiudizi nei
loro confronti, perché un giudizio/pregiudizio può condizionare un
comportamento in negativo (effetto Pigmalione: dire ripetutamente ad un ragazzo
“Sei uno stupido, non capisci niente” equivale a convincerlo di esserlo davvero
e il soggetto si comporterà di conseguenza).
La funzione
docente è una funzione educativa e formativa e nel suo svolgimento si avvale di
tre elementi: CONDIZIONAMENTO, POTERE, GIUDIZIO/PREGIUDIZIO.
La psicologa
passa ad analizzare l’apprendimento: da che cosa dipende? Da due fattori:
ASPETTI COGNITIVI e ASPETTI AFFETTIVI. Entrambi sono importanti ed
interagenti fra loro nel processo di apprendimento, influenzandosi a vicenda.
In particolare, pesa molto la valenza affettiva su quella cognitiva (un ragazzo
con problematiche affettive avrà maggiori difficoltà ad apprendere, rispetto ad
uno che non ne ha).
Apprendere
costa fatica. La psicologa invita a riflettere su questa affermazione e ci
invita a ripensare alla nostra esperienza di studenti. Ci viene quindi
distribuito un questionario al quale dobbiamo rispondere.
Ø
Pensa ad una situazione specifica della tua vita
adulta o bambina nella quale hai sperimentato un apprendimento difficile,
faticoso oppure fallito. Ricorda le emozioni che hai provato, che cosa sentivi
nella tua testa e nel tuo corpo, se hai provato disagio.
RISPOSTE:
frustrazione, confusione, ansia, disagio, inadeguatezza, rinuncia/voglia di
farcela, demoralizzazione, timore di essere escluso, solitudine, rabbia,
insofferenza, invidia per chi ci riusciva senza fatica, smarrimento, vergogna,
umiliazione, oppressione, panico.
Tra tutte le risposte, ci si sofferma particolarmente ad esaminarne una: la
FRUSTRAZIONE.
La psicologa sottolinea che essa deve essere commisurata alla capacità di
reazione. E’, dunque, fondamentale, nell’insegnamento, che il docente AIUTI il
discente ad affrontare la frustrazione dovuta ad una non riuscita. Se la
frustrazione non viene superata, infatti, viene deviata e agisce sul mondo
esterno (sono gli AGìTI, azioni in cui il soggetto proietta verso l’esterno un
disagio interiore oppure rivolge la frustrazione contro se stesso).
Compito dell’adulto sarà, allora, quello di aiutare il ragazzo a non
sentirsi solo nella difficoltà!
Ø
Hai poi superato la tua difficoltà? Come? Quanto tempo
è intercorso? Qualcuno ti ha aiutato? Che cosa hai provato?
RISPOSTE:
Tutti riferiscono di avere avuto difficoltà e di averle bene o male
superate, grazie all’aiuto e al supporto dell’ adulto, al conforto, alla
solidarietà che hanno fatto nascere un senso di forza, con la conseguente
consapevolezza di potercela fare.
Ø
Pensa ora alla tua esperienza di insegnante o
educatore, ad una situazione specifica nella quale ti sei trovato di fronte un
allievo in difficoltà di apprendimento. Quali sue emozioni hai percepito? Quali
suoi comportamenti hai visto in atto? Quali sono state le tue emozioni in
risposta?
RISPOSTE:
Ansia dell’alunno con (in alcuni casi) ricerca di aiuto da parte di
compagni e/o dell’insegnante, superficialità nell’affrontare la prova.
Atteggiamento di rifiuto, chiusura in se stesso.
La psicologa si sofferma sul fattore ansia e spiega che questo tipo di
emozione può avere due valenze, una positiva, che stimola al superamento della
difficoltà, ed una negativa, paralizzante e inibente a livello
dell’apprendimento. Qui risiede l’abilità del docente, nel riuscire a
creare un rapporto di fiducia con l’alunno, tale da farlo aprire all’altro, per
trovare la forza/il coraggio di superare i propri blocchi mentali.
Capita, a volte, che l’adulto si senta impotente di fronte alle difficoltà del ragazzo, così come capita che le emozioni in risposta all’ansia eccessiva del ragazzo siano di rabbia da parte del docente. Teniamo, comunque, presente che l’altro percepisce sempre le nostre emozioni, non solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche attraverso quello non verbale, fatto di sguardi e gestualità e che, spesso, è molto più eloquente. Proprio per questo dobbiamo stare attenti a non creare incongruenze tra i due tipi di messaggio (es. dire “Non ti preoccupare”, avendo lo sguardo corrucciato), poiché l’incongruenza genera confusione nell’interlocutore. Un esercizio molto utile, per noi insegnanti, può essere quello di soffermarci su quello che l’alunno ci fa provare. In tal modo possiamo comprendere anche quello che prova lui. Se noi proviamo pena, ansia, senso di fallimento e siamo adulti che in qualche modo riescono a pilotare ed interpretare i propri sentimenti, immaginiamo quale tempesta interiore si possa scatenare nel nostro alunno. Cerchiamo, allora, di sdrammatizzare le situazioni, di non esagerare nel darci peso. Proviamo a stemperare l’ansia, parlando anche delle nostre esperienze vissute, analoghe alle sue (come ho superato io il problema? Prova a farlo anche tu: è possibile!).
Capita, a volte, che l’adulto si senta impotente di fronte alle difficoltà del ragazzo, così come capita che le emozioni in risposta all’ansia eccessiva del ragazzo siano di rabbia da parte del docente. Teniamo, comunque, presente che l’altro percepisce sempre le nostre emozioni, non solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche attraverso quello non verbale, fatto di sguardi e gestualità e che, spesso, è molto più eloquente. Proprio per questo dobbiamo stare attenti a non creare incongruenze tra i due tipi di messaggio (es. dire “Non ti preoccupare”, avendo lo sguardo corrucciato), poiché l’incongruenza genera confusione nell’interlocutore. Un esercizio molto utile, per noi insegnanti, può essere quello di soffermarci su quello che l’alunno ci fa provare. In tal modo possiamo comprendere anche quello che prova lui. Se noi proviamo pena, ansia, senso di fallimento e siamo adulti che in qualche modo riescono a pilotare ed interpretare i propri sentimenti, immaginiamo quale tempesta interiore si possa scatenare nel nostro alunno. Cerchiamo, allora, di sdrammatizzare le situazioni, di non esagerare nel darci peso. Proviamo a stemperare l’ansia, parlando anche delle nostre esperienze vissute, analoghe alle sue (come ho superato io il problema? Prova a farlo anche tu: è possibile!).
E’ poi molto importante non farsi prendere dal senso di onnipotenza e dal
desiderio di strafare. Poniamo poi attenzione alle reazioni fisiche dei
nostri alunni: si reagisce con sintomi corporei, quando il livello d’ansia è
molto alto e le sensazioni sono poco simbolizzate. Tutto questo, però, porta
alla “morte” della voglia di apprendere e delle “capacità” adulte. Non
dimentichiamo, infine, che tutti i ragazzi hanno delle potenzialità, anche “i
più gravi”, quindi occorre perseguire con loro almeno un obiettivo, che, per
semplice o banale che possa sembrare, sarà comunque un punto di partenza.
SECONDO
INCONTRO:
IL DISAGIO
SOCIO-CULTURALE DI ALLIEVI E FAMIGLIE
Ogni ragazzo
arriva a scuola con una serie di pre-giudizi (meglio definirli giudizi
pre-fabbricati, secondo la mia opinione, per evitare equivoci) dovuti alla
famiglia con tutto il suo vissuto che influisce inevitabilmente
sull’apprendimento.
La psicologa ci
invita a pensare al termine famiglia e ci chiede di specificare il termine: che
cosa intendiamo noi per famiglia? Io penso solo ai genitori. I miei
colleghi, invece, tirano fuori un sacco di altre cose: fratelli e sorelle,
nonni, zii, cugini, famiglia allargata, famiglia straniera, famiglia mista,
famiglia adottiva/affidataria, senza genitori, con genitori omosessuali.
Il concetto va dunque rivisto alla luce dell’evoluzione dei tempi e della società, senza dimenticare che il ragazzo è il prodotto della famiglia ed è influenzato dal clima che si vive in essa.
Il concetto va dunque rivisto alla luce dell’evoluzione dei tempi e della società, senza dimenticare che il ragazzo è il prodotto della famiglia ed è influenzato dal clima che si vive in essa.
Qualcuno
osserva che oggi i ragazzi non hanno più timore dei genitori e dei professori.
Ciò è dovuto ad una serie di cambiamenti sociali che hanno visto, nel corso
degli anni, l’evoluzione del ruolo della donna, che, col lavoro, è diventata
una figura più assente dalla casa. La sua assenza, osserva la psicologa, ha
generato in lei, più o meno consciamente, un senso di colpa che l’ha indotta ad
essere più permissiva con i figli (meccanismo di compensazione), a dare meno
regole, a dire sempre, o quasi, di sì, per evitare il conflitto, difficile e
stressante da gestire, soprattutto dopo una giornata di lavoro. I genitori si
sono trasformati in amici dei figli e in loro alleati contro i docenti,
schierandosi dalla parte dei propri cuccioli, screditando così la figura
docente, ma, di contro, perdendo anch’essi di autorevolezza davanti alla prole.
E’ così sempre più difficile gestire il “no” e ai ragazzi pare tutto dovuto e
vien meno anche il desiderio, l’attesa, a vantaggio del tutto e subito. Che
influsso può avere tutto questo sull’insegnamento? Il ragazzo non sopporta più
la fatica, la difficoltà, lo sforzo, l’impegno, soprattutto in vista del
raggiungimento di un obiettivo lontano. Qual è la molla dello studio?
Chiediamocelo… E’ l’INTERESSE, è la MOTIVAZIONE, è il COINVOLGIMENTO, PERCHE’
QUELLO CHE FACCIO MI SERVE. Ecco, allora, un compito in più per l’insegnante:
ESSERE CHIARO CON L’ALUNNO, ESPORRE L’OBIETTIVO E FAR CAPIRE CHE IL SUO
RAGGIUNGIMENTO E’ UTILE PER LA VITA ANCHE SE NON DA’ FRUTTI IMMEDIATI, MA
QUESTI POSSONO ESSERE COLTI ANCHE A LUNGO TERMINE. Dobbiamo dunque rieducare il
gusto della procrastinazione del raggiungimento dello scopo/utile.
Alla famiglia,
invece, il compito di riequilibrare gli aspetti normativi e quelli affettivi,
invitando i figli a parlare di più e soprattutto a parlare delle loro emozioni,
magari parlando loro delle nostre, cosa che non si fa quasi mai. Evitiamo poi
di instillare nei nostri figli l’idea che il mondo è solo pericoloso (anche se
di fatto lo è), perché i nostri figli hanno bisogno di sperimentare, di vivere
le proprie esperienze e non di crescere lontano dai pericoli del mondo esterno.
Insegniamo loro, piuttosto, ad affrontarli. La paura di tutto ciò che è
esterno, si trasforma, nella famiglia, in diffidenza verso ciò che è altro da
sé, quindi in diffidenza anche verso l’insegnante, visto come un intruso e
quindi screditato ed esautorato del proprio “potere”. Riscopriamo, invece, noi
stessi il valore PROTETTIVO DELLA NORMA e facciamolo scoprire ai nostri
figli, facendo capire loro che le REGOLE SERVONO PER CRESCERE.
TERZO INCONTRO:
LA
COMUNICAZIONE FRA INSEGNANTI-ALLIEVI-FAMIGLIE
Che cosa
significa il termine COMUNICARE? Come ben sanno tutti gli insegnanti,
COMUNICARE equivale a METTERE IN COMUNE QUALCOSA. La comunicazione si avvale
prima di tutto di un EMITTENTE (colui che emette il messaggio) e di un
RICEVENTE (colui che lo riceve). Nel mezzo troviamo il MESSAGGIO, che viene
trasmesso attraverso un CANALE.
Il processo
della comunicazione è circolare, in quanto il ricevente rimanda all’emittente.
Ma è elemento
altrettanto importante, per non dire fondamentale, il CODICE (se due persone
comunicano utilizzando codici diversi, ad esempio una lingua diversa, non si
comprendono). Fanno parte della comunicazione altri elementi: il CONTESTO e il TEMPO.
Il contesto influenza moltissimo la comunicazione (rumori, fonti di
distrazione, pensieri… ).
Occorre dunque
avere ben presenti tutti questi elementi, quando ci mettiamo in relazione con
qualcuno. Pensiamo al contesto: se noi docenti rivolgiamo un rimprovero ad un
alunno davanti alla classe, questo avrà un peso molto diverso, rispetto al
medesimo rimprovero, fatto con il medesimo tono di voce e i medesimi
atteggiamenti, ma in un contesto differente, ad esempio a quattr’occhi. E
questo perché, nel primo contesto, la classe, appunto, pesano altri elementi,
quali la vergogna, l’umiliazione… Anche il tempo a disposizione per la
comunicazione ha la sua importanza: meglio rimandare la comunicazione di un
messaggio importante e che va soppesato, piuttosto che riferirlo di fretta, col
rischio di venire fraintesi o di esprimersi male, fallendo lo scopo.
La scuola di psicologia di Palo Alto, in California,
studiando la comunicazione patologica, è arrivata a scoprire anche i dinamismi
della comunicazione normale (Le tesi centrali alla base della scuola
sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme
psicopatologiche non si originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di
interazione patologica che si instaura tra individui; in secondo luogo che è
possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare
che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.
A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini
contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio “paradossale”. Se la
persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio, la sua risposta
sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo
soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in Pragmatica della
comunicazione umana non si limita a un’interpretazione dei meccanismi
interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono
di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio
con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la
“prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta
riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente
inespugnabili. Partendo da queste premesse, la terapia viene intesa non come
“guarigione”, ma come “cambiamento”. Sarebbero distinguibili due realtà, una
delle quali è supposta, oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato
delle nostre opinioni sul mondo. Ogni persona deve sintetizzare queste due
realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e
distorsioni dovute al fatto che il mondo della razionalità è controllato
dall’emisfero cerebrale sinistro, che ci consente di interpretare la realtà
oggettiva in termini razionali, secondo una logica metodologica. Ma questa è
spesso in conflitto con l’attività dell’emisfero destro da cui nascono
fantasie, sogni e idee che possono sembrare illogiche e assurde. Il linguaggio
della psicoterapia deve intervenire sull’emisfero destro, perché in esso
l’immagine del mondo è concepita ed espressa, e, mutandone la grammatica
attraverso paradossi, spostamenti di sintomi, giochi verbali, prescrizioni, si
determina il cambiamento dell’immagine del mondo che è alla base della sofferenza
psichica. La rivoluzione non è da poco, perché smentisce la persuasione comune
secondo cui, a partire dalla nascita, la realtà non può che essere “scoperta”.
Il costruttivismo sostiene che ciò che noi chiamiamo realtà è
un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il
mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza. La realtà
non verrebbe quindi “scoperta”, ma “inventata”. Da queste invenzioni nascono
“stili di vita” che rendono ciechi non solo gli individui, ma interi sistemi
relazionali umani (famiglia, aziende, sistemi sociali e politici) nei confronti
di possibilità alternative. Invece, attraverso una nuova formulazione di
vecchie immagini del mondo, possono sorgere nuove “realtà”. Fonte sintetizzata:
www.lavocedifiore.org).
Come è risaputo, esiste una COMUNICAZIONE di tipo
VERBALE e una di tipo NON VERBALE, fatta di gestualità, sguardi, atteggiamenti
corporei. Il primo assioma degli studiosi di Palo Alto è che NON SI PUO’ NON
COMUNICARE. Per renderci meglio conto di quanto detto, la psicologa fa svolgere
un “gioco”: invita cinque volontari a seguirla fuori dalla sala del corso e
spiega loro che devono interpretare ciascuno un’emozione diversa, senza
usare le parole, ma con la sola comunicazione non verbale (paura, felicità,
preoccupazione, tristezza, assenza di emozioni). I cinque attori rientrano
nella sala e interpretano la parte, mentre il gruppo deve “indovinare” quali
siano le emozioni espresse. Alcune vengono colte senza difficoltà (felicità e
tristezza), altre lasciano spazio a più interpretazioni. Nessuno coglie la
non-emozione, che viene comunque interpretata. Questo dimostra che, anche nella
nostra apparente impassibilità, trasmettiamo qualcosa.
Ritornando alla comunicazione verbale, la psicologa ci
invita ad analizzarne le varie componenti, che vengono scritte alla lavagna:
parole (dipendono dal contesto); tono (dipende dalle emozioni); pause; ritmo
(se sono agitato aumenta, se sono tranquillo diminuisce).
Anche il SILENZIO viene visto come una forma di
comunicazione: ti comunico che non voglio comunicare.
Analizziamo, quindi, gli elementi della comunicazione
non verbale: gesti (sono culturalmente determinati); viso (sguardo, mimica
facciale…); postura; abbigliamento.
Ora ci invita ad OSSERVARE, sottolineando che
l’osservazione è un punto di partenza importantissimo per interpretare. Questo
fattore diviene fondamentale nella scuola, all’interno di un consiglio di
classe, per esempio, nel momento in cui la collegialità ci aiuta a conoscere
meglio l’alunno.
La dottoressa Mineo ci invita ad essere sempre
CONGRUENTI fra la comunicazione verbale e la non verbale, onde evitare
ambiguità interpretativa (parlare di una tragedia ridendo, ad esempio, è poco
credibile e si rischia di non essere presi sul serio o di passare per malati di
mente).
Ci viene illustrata in breve la teoria dell’analisi
transazionale, secondo la quale, in ognuno di noi, convivono un GENITORE, un
ADULTO e un BAMBINO (sono tre sfere della nostra personalità, che
rappresentano rispettivamente norme/affettività, razionalità/logica e
impulsività/emotività). Anche queste hanno il loro peso nella comunicazione,
sia nel modo in cui ci esprimiamo/poniamo davanti agli altri, sia in quello in
cui veniamo da essi percepiti. Facciamo quindi il gioco della maestra e dei
genitori a colloquio. La maestra viene istruita dalla psicologa su ciò che deve
comunicare ai genitori, senza che questi lo sappiano, mentre i genitori
ricevono a loro volta altre istruzioni, sconosciute alla maestra. Sulla base di
queste, si rappresenta/simula una situazione. Il gruppo viene diviso in due
parti: ad una spetta il compito di focalizzare la comunicazione verbale,
all’altro solo quella non verbale. Dopo 10’, il gruppo riferisce le proprie
impressioni. Ne emerge una quantità di informazioni molto nutrita, che dimostra
come l’interpretazione di una medesima comunicazione appaia differente da una
persona all’altra e persino dalle stesse intenzioni comunicative degli
“attori”.
La discussione si apre sul rapporto comunicativo
docenti – allievi - genitori…
Ad ognuno di noi, alla luce dell’esperienza vissuta,
trarre le conclusioni e mettersi nei panni degli altri.
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