Eccolo il garage del gommista!
Il cielo è bianco, compatto, senza una nuvola,
foriero di un'imminente nevicata: meglio essere previdenti e montare le gomme
da neve. Accosto e salgo con le ruote sul marciapiede. Lancio una rapida
occhiata all'interno del garage: c'è solo una persona. Suppongo che non dovrò
attendere molto per essere servita. Prima di aprire la portiera e scendere,
volgo lo sguardo allo specchietto retrovisore: una vecchia auto rossa, una
Skoda, rallenta dietro di me. La guida un uomo anziano, dal volto paffuto e
rubicondo, la fronte ampia e stempiata. Mi guarda e si affianca alla mia
vettura, senza distogliere lo sguardo. La sua è un'espressione mista di sfida e
disapprovazione. Sta sicuramente pensando ECCOLA LA SOLITA DONNA CHE POSTEGGIA
SUL MARCIAPIEDE E INTRALCIA IL TRAFFICO! Del resto, non c'era altro posto dove
fermarsi!
Rallenta, mi supera e sale a sua volta sul
marciapiede.
Scendo e mi dirigo all'interno del garage. Il
garagista, un uomo pelato sulla quarantina dalla pelle del viso tutta
butterata, ma un sorriso affabile e conquistatore e due occhi azzurrissimi e
schietti, mi si avvicina e domanda di che cosa ho bisogno.
"Devo montare le gomme antineve."
Comunico. "Può farlo subito o devo lasciarle la macchina?"
Mi risponde che deve finire prima un lavoro e che
dovrò aspettare un po'. Aspetterò.
Mi volto verso l'uscita e noto l'uomo della Skoda
che sta entrando nel garage: la sua camminata è ciondolante come quella di un
ubriaco e si regge a fatica sulle gambe.
Il garagista lo saluta calorosamente: dal tono
confidenziale, deduco che devono conoscersi da tempo. Anche lui deve montare le
gomme da neve. Aspettiamo distanti l'uno dall'altra, quasi una distanza di
sicurezza, messa in atto da due estranei diffidenti e "rivali": a chi
tocca per primo? Siamo arrivati praticamente insieme! Man mano che i minuti
passano, non so come, la distanza si accorcia sempre più, finché mi ritrovo il
vecchio vicino. Il vecchio… Pronuncio questo nome con rispettosa consapevolezza
di quello che rappresenta ai miei occhi. Deve avere all'incirca
settantacinque/ottant'anni. La sua postura non è statica: anche da fermo
continua a ciondolare. Si è trascinato a fatica fino a me, in cerca di un
contatto umano. Mi guarda. I suoi occhi sono cerulei e annacquati, annacquati
di tristezza e di vecchiaia e, forse, di stanchezza. Già… sembra proprio
stanco. Dovessi dire di che cosa, non sbaglierei dicendo di vivere. Ed ecco che
le sue labbra, anch'esse molto mobili (continua a ritrarre il labbro inferiore,
lo fa sparire nella bocca, lo morde tra i denti e lo lecca con la lingua, con
rapidi movimenti), si schiudono in un suono articolato e pronuncia le prime
parole di quello che sarà un lungo discorso. Mentre parla, sembra masticare tabacco,
ma è sempre lo stesso strano movimento della bocca.
Strano, penso, non attacca col solito discorso del
tempo. Inizia, invece, a "vomitare" il bollettino medico sul proprio
stato di salute.
"Ho la flebite." Mi dice, forse per
giustificare la propria andatura. "Sembro ubriaco, ma non è così". E'
come se mi avesse letto nel pensiero.
L'estate scorsa è stato operato alla gola e la
flebite gli è venuta di conseguenza: sta prendendo un sacco di farmaci. Ha
avuto un ictus, cinque anni fa: era sul Gottardo insieme alla moglie, stava
guidando e, per poco, non finivano fuori strada. E' stato operato al cervello.
Un anno fa ha subito un intervento al cuore. Mi racconta dei suoi tre figli (
due femmine e un maschio) che vivono in Francia e dei nipoti che hanno tutti
tra i venti e i venticinque anni: non li vede mai. Gli hanno telefonato la
scorsa estate, l'ultima volta. La moglie, l'ha cacciata di casa, perché, quando
lui andava al lavoro, anche di sera, lei usciva a divertirsi. Così dice:
"Faceva troppo la furba". Adesso vive solo, in una vecchia casa
ristrutturata, nei boschi della Valcuvia: l'aveva sistemata per viverci con la
moglie e con i figli (Ingrati!), prima che lo abbandonassero. Fa freddo, in
questi giorni, e la casa non ha riscaldamento. Il vecchio ha sempre utilizzato
la legna del bosco da bruciare nella stufa, ma quest'anno, malconcio com'è, non
ce la fa ad andare nei boschi a tagliare la legna ed è costretto a starsene al
freddo. Beve un grappino ogni tanto e un buon bicchiere di vino a pasto ("ma
non creda che mi ubriachi, anche se tanti, nelle mie condizioni, lo
farebbero"), per scaldarsi di dentro. "Io sto bene da solo",
continua a ripetere. Ma i suoi occhi annacquati tradiscono un'infinita
tristezza. "Pensi, "continua, "ho lavorato tutta una vita, mica
come si lavora adesso! Ho lavorato anche dodici ore al giorno, a volte
quindici. E per che cosa? Ho messo da parte dei soldi e me li hanno mangiati
fuori tutti i miei figli e quella furba di mia moglie! Per non parlare dei
nipoti! Quelli venivano dal nonno solo a batter cassa, finché ce n'era! E a
cosa mi è servito lavorare così tanto? Cosa mi resta adesso? Nessuno mi cerca
più… Non sanno nemmeno che esisto… Ma io sto bene da solo."
Che tristezza…!
"Mi dica Lei," continua, "che senso
ha vivere? Che vita è la nostra? Me lo dica!"
Oddio, mi sta mandando in crisi! Adesso anche i
miei occhi sono annacquati. Provo una gran pena per il vecchio e la provo anche
per me, per quella che potrò essere un giorno, nella mia vecchiaia. La provo
per tutti i vecchi del mondo, perché tutti i vecchi del mondo sono così:
ciondolanti di cuore, con gli occhi annacquati dalla vita, col labbro che
scompare triste dentro la bocca, col cuore gonfio d'angoscia e la mente fatta
solo di ricordi, senza speranza, senza futuro, solamente in cerca di un
contatto umano che ancora gli faccia sentire che sono, esistono, vivono ancora…
nonostante tutto…ancora.
Lau
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